La mia leadership era offuscata, non riuscivo più a trascinare
Rubriche/PensieriParole/ di Piero D’Errico
Erano quasi le otto e venticinque quando paonazzo in volto e ormai a corto di argomenti, superai il portone d’ingresso che si chiuse dietro di me, consapevole di quanto da lì a breve sarebbe accaduto.
Cominciamo però dall’inizio.
Non si trattava di cattiva volontà, solo non avevo mai tempo, diviso come ero tra mille passioni e mille “impegni diversi” non avevo mai il tempo di “aprire libro”.
E la cosa buffa era che succedeva da troppo tempo.
Quella mattina alle sette e mezza, impreparatissimo, ero già dietro il portone della scuola.
Cercavo di convincere i miei compagni di classe che a mano a mano arrivavano, a non entrare a scuola, a prenderci una “giornata di sciopero” cosa che tra l’altro avevamo già fatto tante altre volte.
Cominciai a riscaldare gli animi, proponendo a motivo dello sciopero il fatto che avevamo sempre troppi compiti, poi passai ad accusare la severità del prof di Tecnica, sempre scuro in volto da sembrare eternamente arrabbiato con se stesso e anche con noi.
Passai al freddo intenso delle aule, alle ingiustizie dovute al caro-libri.
Non vedevo cenno né a favore né contro e quindi continuavo per cercare di vedere o sperare di vedere un cenno di assenso che non arrivò mai.
Parlai della riforma scolastica in discussione che ci avrebbe penalizzato sempre più non so per cosa, accusai il fatto che mai nessuno sentiva il dovere di ascoltare noi studenti e infine parlai di gite scolastiche promesse e mai fatte.
Per essere più convincente, conclusi: dimostriamo di essere maturi, di non essere più dei ragazzini, dimostriamo di avere coraggio, proprio quello che mi mancava e che mi teneva fuori dalla scuola, impegnato a recitare sino alla fine, una commedia senza applausi e senza fischi, che lasciò tutti nell’indifferenza.
Parlai, parlai, parlai, ma non riuscii a essere credibile, non riuscii a scaldare i loro cuori che tra l’altro non era difficile scaldare quando c’era in ballo qualche giorno di vacanza senza motivo.
Non servì a nulla la mia dialettica, non convinse nessuno. La mia leadership era offuscata, non riuscivo più a trascinare i miei compagni di classe.
In pochi secondi, erano tutti spariti, erano già tutti in classe.
Quel “due” lo meritai tutto e per giunta, finì anche in pagella.
Tornai al banco diviso tra delusione e vergogna, e facendo finta di non sentire qualche risatina dei miei amici.
Quel giorno pioveva e non mi fu difficile capire il senso del loro “ragionamento interiore”: piove e fa anche freddo sempre meglio il calduccio della nostra aula.
Quel “due” mi fu “salutare” e fu difficile a tutti quelli che passarono da casa nei giorni successivi, non trovarmi con il culo sulla sedia a studiare.
Fu proprio merito di quel “due” se dopo un po’ arrivò quel “nove”.
Nel frattempo continuavamo a inventare sempre nuovi e diversi motivi per “scioperare”.
Non fu facile arrivare a quel trentasei/sessantesimi che la Commissione d’esame mi “donò” al termine del QUINTO anno di COMMERCIALE che avevo tra l’altro frequentato per la seconda volta.
Eh già, avevo “impegni diversi”, avevo sogni mai persi.