Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico
Provate a immaginare cosa vuol dire dormire per strada, su marciapiedi, per terra.
O andare in giro vestita di stracci, a piedi nudi e se ci riuscite provate a immaginare una vita di stenti, in cui trascorri giorni senza toccare cibo.
Immaginate il desiderio di una vita migliore, che si impossessa della mente.
Immaginate la fortuna che pensate vi abbia finalmente baciato, nell’attimo in cui ti viene proposta la possibilità di una vita migliore, la descrizione di un posto dove vivere dignitosamente, mangiare, andare a scuola, poter comprare i libri, i quaderni, comprare le “shoes”, le scarpe.
Immaginate la fatica mentre si attraversa il deserto e il mare, e la sosta in lager, tra maltrattamenti e violenza, soffocata quasi volentieri dalla felicità e speranza di toccare un giorno un posto migliore.
Poi i primi problemi, le difficoltà di trovarsi in un paese non accogliente.
Quella sensazione che comincia a prendere forma, di non essere ben voluta, di non essere ben accolta.
Quella sensazione ti fa scoprire che tante cose non tornano, non esistono e trovarsi quando va bene in un “campo”.
Trovarsi a non avere un appoggio, una spalla, non avere con chi parlare, con chi confidarsi, non sapere come sarà il domani.
Passano i giorni e nulla cambia, la delusione ti assale, ti sconvolge.
E poi c’è da pagare la “traversata” e aiutare la famiglia rimasta in Africa che hai promesso di aiutare. Non puoi.
Non hai permesso, non hai un lavoro, non hai un euro. Ti vesti con i vestiti che ti hanno regalato e hai avuto fortuna a trovare la taglia più o meno giusta.
Non è per questo che sei fuggita, non sei scappata per vivere in un mondo in cui non ti senti di far parte, guardare gli altri e accorgersi di quanto difficile e diversa è la tua vita.
Ti aiuta la fede in Dio, sei credente, credi in Dio, preghi il tuo amico Dio.
Vuoi sperare sia solo un brutto sogno, non ti vuoi svegliare, hai tanta paura di svegliarti.
Provate a immaginare solo un po’, fate un forte respiro, poi continuate ad ascoltare quella che è la mia storia, simile a quasi tutte le altre storie.
Non vogliono che resti qua, il mio paese non è in “guerra” non possono accogliermi.
Per loro guerra è soltanto dove si spara, dove si sente l’eco degli spari, ma almeno lì hai la speranza che prima o poi un colpo ti raggiunga al cuore.
Nel mio paese solo fame, miseria e povertà, quella è la nostra guerra.
Leggo intorno a me un po’ di odio e un po’ di razzismo, sembro colpevole di tutto ciò che non va, do’ come un senso di insicurezza agli altri, ma sono io la prima a essere insicura.
Non posso confidare i miei cattivi pensieri, quando mi sento un po’ giù, quando sono a terra.
Mi hanno curato le ferite che avevo sul corpo, ma le ferite dell’anima, quelle no, non riuscirà mai nessuno a guarirle. Quelle restano, restano per sempre, non si curano.
Sono, non so più sino a quando, in un “campo” a poca distanza dal paese.
Sono arrivata sin qua trasportata da un desiderio di pace e di benessere, e invece son qua in questo giorno d’inverno un po’ grigio e un po’ nero.
Pioverà, forse stasera, forse domani, forse mai.
Qualche uccello che salta tra i rami, una macchina sfreccia veloce, un paesaggio bello e verde che ricorda tanto il paesaggio del mio paese.
Ed io tuffata in una profonda tristezza, sprofondata in una profonda amarezza.
Avevo tanti desideri, tanti sogni, coltivavo la speranza di una vita migliore.
Speravo, speravo, speravo.
Ed ora son qua a chiedermi mille volte e poi mille altre volte ancora:
CHE NE’ SARA’ DI ME.