La sala da barba di “Mesciu Pippi”.

Lettere/di Mimino Marra

Quei pochissimi metri quadrati al centro della città accoglievano, nei miei ricordi di bambino, la “sala” da barba de “mesciu Pippi” quando il solo servizio barba costava poche lire e il taglio capelli poco piu’.

Mesciu Pippi Marra, era mio padre. Prima di lui nel salone c’era stato suo padre, barbiere e intellettuale, corrispondente per “Il Popolo di Roma”.
“Nu tardare stasera!”, sussurrava la sposa a mio padre, che dopo l’orario di lavoro si intratteneva invece fino a tardi per parlare di politica con un gruppo di amici e frequentatori assidui, quegli “intellettuali di strada” a cui faceva cenno Piero D’Errico.

Mai passanti o curiosi occasionali, né tuttologi virtuali dei tempi moderni: in particolare Uccio De Simone, Rafele D’Errico, Ucciu ‘u peparussaru, suo amico fraterno fino all’ultimo giorno, Gino Frassanito, Pietro Cudazzo, rari rappresentanti della classe operaia, non ancora sedotti dalla democratizzazione dei consumi indotti, ma assetati di conoscere, senza titoli di studio, e di capire.

E il salone di barbiere, d’un tratto, si trasformava, accantonati rasoi e forbici – usati con diligenza e devozione per ore, ben inteso – barbe, capelli e acqua di colonia sembravano un pretesto per discutere del capitale, del principio di maggioranza, dell’illusione della rappresentanza senza rappresentatività, dell’ipocrisia della delega dietro l’urna elettorale, di rivoluzione. Di anarchia.

Leggeva, mesciu Pippi, di continuo. Lesse pure “Il Capitale” di Marx, a dispetto dei dubbi dell’avv. Carlo Mauro, pioniere del Partito Comunista a Galatina,  che dandoglielo in prestito, gli domandò “ce l’hai fare, Pippi?”. Studiare.  E lui lo fece, lui che non aveva potuto continuare a farlo, dopo le elementari, perché doveva lavorare per vivere. Rinunciò, per lo stesso motivo, all’incarico di sindaco offertogli da Biagio Chirenti, segretario locale del P.C., ed accettando quello di assessore comunale. Dittatura del bisogno e nobiltà del lavoro.

Dove fino all’84 c’è stata quella sala da barbiere oggi ha sede una banca: galatinesi in coda per prelevare, consultare, chiedere un prestito, piangere miseria, investire. La speranza riposta in fogli da cinquanta; le riflessioni, le letture comuni come divagazioni da perditempo; le “rivoluzioni”, solo digitali.
Troppo facile cedere alle nostalgie. E soprattutto senza senso. Più bello, invece, conservare gratitudine verso chi ha riposto il seme della partecipazione cosciente e fiducia che quella semina, presto o tardi, porterà frutto.