“Fui io che lo feci arrivare in Francia, e quella volta feci la cosa più giusta che potevo fare”.
Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico
Quando lo vidi in stazione ad aspettarmi, aveva quel giubbino, la
camicia e le scarpe usate, che io gli avevo dato.
Aveva i jeans nuovi che sempre io gli avevo regalato.
In poco tempo, tra taxi, tram e pullman, mi tirò fuori da quell’inferno
fatto di traffico e rumore.
Parlava discretamente il francese ed era straordinariamente felice.
Felice, in una nazione che lo aveva accolto, gli aveva dato una stanza
per dormire e per mangiare, lo stava facendo studiare e gli stava
insegnando un mestiere ( sarto ) subito dopo c’era ad aspettarlo un
lavoro.
Era sbarcato a Catania, salvato da una ONG.
Da Catania, destinato a Lecce e lì la sua vita s’era fermata.
Era di troppo, era un ingombro, era invisibile.
In una stanza condivisa con altri “immigrati” vicino a casa mia.
Fui io che lo feci arrivare in Francia, e quella volta feci la cosa più
giusta che potevo fare.
La Francia è tutt’altra cosa, ha un sistema di accoglienza che quando
ti accoglie, non fa solo finta, quando in Francia ti accolgono puoi
progettare la tua vita.
Quel giorno mi portò in giro, mi parlò, si raccontò.
Era finalmente felice ed io di più per lui.
Si sentiva finalmente una “persona”, l’avevano curato, protetto, dato
un lavoro.
E la domenica sempre in Chiesa, con la Bibbia in mano a pregare,
cantare e fare fatica ad andar via, uscire dalla Chiesa, allontanarsi
da Dio.
In Italia s’era trovato in un periodo storico in cui il “razzismo” aveva
alzato la testa, aveva quasi paura d’uscire, di camminare senza che
qualcuno per sentirsi realizzato, gli gridasse: tornatene a casa tua.
Mi volle per forza accompagnare alla stazione del suo paese, da lì
sarei andato in aeroporto per tornare.
Il treno stava per partire ed io dopo i saluti feci in tempo a dirgli:
Viva la Francia.
“NO” – rispose lui.
E quasi correndo nella stessa direzione del treno, mi gridò:
VIVA DIO.