Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico

Non furono pochi a pensare che era un modo naturale del COSMO per regolare il suo equilibrio, le sue regole stravolte.

Non furono pochi a pensare che il VIRUS altro non era che la vendetta del COSMO alle strafottenze dell’uomo.

Non furono pochi a pensare ad una “maledizione” di Dio per i peccati dell’uomo.

Fu doloroso leggere negli occhi della gente tanta tristezza, tanta preoccupazione, non restava altro che sperare, sperare, sperare in una fine che non arrivava mai, in un “numero” che non invertiva la sua tendenza, in una cura, in un miracolo.

Avevamo paura per il nostro lavoro, avevamo paura per il lavoro di tutti.

Che ne sarebbe stato di noi ?

Tante attività non riaprirono, tante ci riprovarono ma dopo un po’ si arresero.

Altri pian piano continuarono.

Mancavano i soldi da spendere, non c’era lavoro, l’economia mondiale era crollata, s’era fermata.

Insomma non fu più la stessa stessa cosa, il VIRUS ci aveva impoverito, le Istituzioni tutte, provarono a sollevare l’economia ma non ci riuscirono a raggiungere tutti o forse non c’erano abbastanza risorse per tutti.

Eravamo usciti dal pericolo, ma stentavamo, c’era rimasta addosso un po’ di paura, facevamo fatica a riprendere la vita di prima o forse non si poteva più.

Eravamo bloccati, spaventati, avevamo paura che la storia si ripetesse, avevamo scoperto le nostre fragilità, le nostre debolezze, eravamo stati messi con le spalle al muro.

Continuammo ad aver paura ancora per un po’, paura di uscire, di stringere mani, di stare vicini, quel brutto periodo aveva lasciato un segno dentro di noi.

Mi sbalordì la creatività italiana. Ci accompagnò in tutti quei momenti e la si vedeva in ogni cosa, fui sbalordito dall’amore che univa il popolo italiano.

Fu una prova di grande forza verso un nemico invisibile che seminava il terrore e fu nello stesso tempo una grande prova d’amore, una immensa prova d’amore che tenne insieme e unito il popolo italiano.

Succedeva spesso, molto spesso che davanti alle notizie anche belle, mi si inumidissero gli occhi, ma ormai avevo fatto l’abitudine.

Il bianco, il rosso e il verde erano i colori dominanti e non solo in Italia, nel mondo.

Il bianco, il rosso e il verde colorarono per tutto il tempo, il mondo.

Il nostro tricolore sventolo’ ovunque, ci faceva coraggio, ci faceva forza, ci dava la carica.

L’epidemia aveva rafforzato il nostro senso di comunità.

Eravamo un grande popolo e di questo ce n’eravamo quasi dimenticati.

Eravamo “grandi” e non ce n’eravamo accorti.

Non sapevamo che il mondo, ci voleva così tanto bene.

Alle ore diciotto del 14 marzo, dai balconi e dalle finestre, scappavano fuori all’aperto in tutta Italia, le note delle canzoni più belle: IL MONDO, VOLARE, AZZURRO, e ci sembrarono, se possibile, ancora più belle.

Una vecchietta a mezzogiorno del 15 marzo, ballava con marito sul balcone della sua casa, tutt’intorno si levava un immenso applauso rivolto a tutto il personale sanitario impegnato giorno e notte nella lotta contro il VIRUS.

Non erano ricordi, erano immagini che sfilavano davanti ai miei occhi in maniera così forte che anche a campare mille anni, sarebbero rimaste uguali.

Durò più del previsto, era quasi estate e ancora non era finita.

Il nostro Paese che per gran parte vive di turismo, era stato colpito al cuore, il nostro Paese era quasi in ginocchio.

Erano incuriositi mi stavano ad ascoltare con gli occhi sbarrati.

Io ogni tanto mi fermavo, erano tante le emozioni, erano tanti i ricordi, quando quella solita vocina in fondo, di quella bimba che non stava un attimo ferma mi grida: E TU ?

“All’inizio pensai più al lavoro che a me stesso, poi man mano passavano i giorni, cambiai. La paura mi inchiodò a casa e a casa mi rinchiusi.

Mi presi cura di me e non ci fu un solo giorno, per tutto il tempo, in cui non fui attraversato da un  pensiero sulla bellezza della vita.

Scrissi, scrissi, scrissi tanto, tanti articoli li inviai per la pubblicazione, tanti no. Li conservo, fanno parte di me, raccontano delle mie paure, dei miei timori, delle mie speranze.

Come un diario di quei giorni, che comprende le bare in fila davanti a un cimitero e gli arcobaleni disegnati dai bambini su stoffa che scivolava dai balconi o dalle finestre.

Insomma rimasi chiuso in casa insieme  a tanta voglia di vivere.

I miei occhi si fecero lucidi, la voce si soffocò in gola e in quell’aula strapiena di bimbi, calò improvvisamente il gelo”.