Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico
Le uniche parole che c’eravamo scambiate erano: buon giorno o buona sera.
Ci incontravamo sempre di sfuggita, di corsa.
Mai un discorso più lungo di un saluto, eppure abitavamo di fronte.
Eravamo chiusi in casa, eravamo impauriti e ogni tanto, assaliti da un profondo desiderio di un sorso d’aria fresca, si usciva un po’ sul marciapiede davanti a casa.
Avevamo con quel signore anziano che abitava di fronte, gli stessi intervalli e stranamente ci incontravamo più volte nel corso della giornata.
Io sul marciapiede davanti a casa mia, lui dall’altra parte della strada.
Fu così che cominciammo a scambiarci qualche parola, cominciammo a raccontarci piano piano un po’ di cose e spesso guardandoci, allargavamo le braccia.
Cominciammo a raccontarci a puntate, ogni volta che ci incontravamo, io sempre sul marciapiede davanti a casa mia, lui dall’altra parte della strada.
Ci raccontammo pezzi della nostra vita, avevamo fatto conoscenza, non avevamo fretta e se non avevamo freddo, i nostri discorsi diventavano sempre più lunghi.
La strada non era molto larga per cui non facevamo fatica a sentirci.
Mi raccontò della guerra, della ricostruzione, di quando piano piano le famiglie cominciarono ad acquistare la cucina, il frigorifero, poi la TV.
Aveva sempre qualcosa da dire, da raccontare, sempre con quel sigaro in bocca e dopo un po’ di giorni, non raccontava solo a me, raccontava ad altri vicini che si erano, pure a distanza, uniti ai nostri discorsi.
“Colpa dell’uomo – ripeteva – colpa dell’inquinamento, di quello che noi chiamiamo
“progresso” se oggi siamo chiusi in casa.
Torneremo alla campagna, torneremo alle cose semplici e normali, il nostro quotidiano sarà diverso, sarà più difficile. Ci rispetteremo di più e rispetteremo di più l’ambiente questo sarà il domani, figli miei”.
Che strano, sino a qualche giorno prima c’era appena un saluto, ed ora eravamo diventati tutti “cari amici”, era il nostro appuntamento fisso, a intervalli più volte al giorno.
Il tempo spazzò via quel brutto periodo che ci vide chiusi in casa, ma quella bella abitudine di incontrarci rimase e lui quella bella persona, era sempre il nostro
riferimento. Quella bella abitudine insomma continuo’ per sempre.
Eravamo, in una magnifica serata di primavera di tanti ani dopo, ancora là.
Ognuno aveva portato la sedia, due sul marciapiede, due appena per strada.
Si, era lo stesso periodo di tanti anni fa, solo che allora non potevamo stare vicini.
Pensavamo che qualcosa ci stava allontanando, invece no, la stessa cosa ci stava avvicinando, stava rafforzando l’amicizia, stava rafforzando quel senso di
“umanità” che avevamo smarrito.
Avevo notato che, quando cominciava a parlare era difficile fermarlo, ma quando parlava della “sua” guerra mondiale, ogni tanto lo faceva, si fermava.
Era come se gli venisse un nodo in gola. Poi ricominciava.
In quella sera di primavera tra quel profumo e quel silenzio ci trovammo, non so come, a ricordare quello stesso periodo di un po’ di anni fa, quella stessa stagione dell’anno 2020.
E lui prese il via, cominciò a parlare, a dirci che per 28 giorni non si era mosso da casa se non per fermarsi sul marciapiede davanti.
Parlò delle telefonate alla “putia” per dettare l’elenco della spesa che qualcuno gli portava a casa, e non ci fu mai una sola volta che non dimenticò qualcosa.
Poi si fermò, ebbe la stessa commozione di quando parlava della “sua” guerra.
Si, si fermò. Era così, era proprio così, era stata come una guerra, un’altra guerra.
“Una guerra – come lui ci raccontò prima di fermarsi – contro un nemico vigliacco, un nemico che non si faceva vedere, che si nascondeva. Quella guerra fece tante vittime e tanto danno, quella guerra la combattemmo senza mai arrenderci”.
Poi si fermò per qualche secondo, e chinò il capo.
Poi ricominciò, senza nascondere un po’ d’emozione:
“ che bella serata signori, che bella luna e quante, quante stelle”.
Poi fece quel gesto che per tanto tempo non avevamo potuto fare, ci abbracciò tutti ad uno ad uno.
Poi si asciugò gli occhi ed entrò in casa.