“Mi sono arreso ad una solitudine, ad una angoscia, ad una paura che non conoscevo”.
Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico
Finì tutto in quel bustone di plastica su cui fu spruzzato del disinfettante e chiuso avvolgendolo con un cerotto all’estremità.
In quel sacco c’era tutto quanto avevo con me, robe, appunti, penne, kinder, dentifricio, ritagli di giornale. Quel sacco in cui c’era di tutto rimase chiuso sul terrazzo di casa per una ventina di giorni, poi lo aprii e tirai fuori per prima cosa gli appunti scritti in quei giorni. Ma cominciamo dall’inizio. In quel numero di POSITIVI che la TV quel tardo pomeriggio aveva comunicato, c’ero anch’io. Comincia per tutti così, comincia con un tampone POSITIVO, poi la speranza che tutto finisca con un tampone NEGATIVO.
In mezzo un mondo, un mondo di dolore e sofferenza, di “tute” bianche che corrono, di ossigeno che scorre, di un inconfondibile rumore di carrelli che scivolano sul pavimento.
Mi ritrovai in ospedale, si meno male, decisi di andare in ospedale, di non perdere altro tempo.
Decine di messaggi mai aperti e quando decidi di leggere qualcuno, ti accorgi che fanno solo male, richiamano ricordi, richiamano momenti, ti ricordano la vita di prima fermata all’improvviso da un VIRUS. Sei a pezzi, non ti va di leggerli, ti danno tanta, tanta malinconia.
Se per salvarsi bisognava reagire, beh, io non l’ho fatto.
Mi sono arreso, sono stato travolto, non ho reagito. Mi sono arreso ad una solitudine che non conoscevo, ad una angoscia che non conoscevo, ad una paura che non conoscevo.
Non ho apposto nessuna resistenza e non sono stato più sfiorato da un solo pensiero che riguardava “un domani” che non sapevo se c’era.
Ogni cosa negativa di questo mondo mi apparteneva.
Vedevo scorrere davanti a me quella lunga fila di camion dell’Esercito che attraversava la città per trasportare i tanti morti. Era quella l’immagine del COVID, l’immagine della “paura”.
Immaginate “una vita” nel suo momento più complicato o in un momento complicato, quando ha solo voglia di vedere intorno a se gli “affetti” più cari, quando pensa sia arrivata l’ora di confidare un segreto, dire cose non dette, stringere forte una mano o sentire stringere forte la sua.
Non si può, non puoi vedere nessuno, non puoi avere nessuno vicino.
E’ la frantumazione, la lacerazione dell’anima, non puoi avere gli “affetti” di cui hai bisogno, nel momento del bisogno.
Stavo a lungo a guardare dalla finestra di quel secondo piano la vita fuori, passavano macchine e persone, c’era qualche cartello con indicazioni e qualche altro segnale. Venne mio figlio con una collega d’ufficio, Veronica, a portarmi giornali e altre cose che mi servivano. Descrissi i cartelli che vedevo dalla finestra, loro girarono tutt’intorno all’ospedale sino a trovarli. Quando da quel secondo piano li vidi, mi si aprì il cuore, furono mani che salutavano, baci che si lanciavano, sorrisi che si sprecavano.
Ci bastava, si ci bastava. Io da dietro la finestra di quel secondo piano e loro giù in un’aiuola, nel punto più vicino a me. Furono giorni tristi, ma ancora più triste fu il giorno in cui fu dimesso il mio amico di stanza. Stavamo lì da un po’ di giorni, c’eravamo affezionati. Il suo letto fu presto occupato da una persona che non stava affatto bene.
Se qualche ora ero riuscito a dormire le altre notti, quella notte neanche quella. Fu un via vai di medici e infermieri. Così pure la notte successiva.
Sentii un gran movimento nella stanza poi niente. La mattina vidi la finestra mezza aperta, mi alzai e la chiusi per paura che quel signore che era a fianco e che aveva il letto proprio sotto la finestra sentisse freddo. Sembrava dormisse. Era morto, era morto nella notte ed io non mi ero accorto di nulla. Lo portarono via nella tarda mattinata.
Fu quella la mia ultima notte in ospedale ma io ancora non lo sapevo.
Erano le 13 e 25 quando comunicarono le mie dimissioni e quella volta furono lacrime di gioia. Telefonai a mio figlio gli dissi di fare presto, di venire a prendermi che potevo tornare a casa. Appena un quarto d’ora dopo lo richiamai non vedendolo arrivare senza rendermi conto che non poteva essere già lì. Volevo come scappare, avevo paura che mi fermassero non so, volevo vedermi finalmente fuori. Non mi sembrava vero. Strappai un foglio di quaderno, scrissi Grazie, Grazie, Grazie e lo lasciai sul cuscino. Salutai e mentre ci allontanavamo, volsi più volte lo sguardo al reparto dove ero stato ricoverato e sottovoce feci l’augurio di guarigione a tutti.
Poi l’ospedale sparì alle mie spalle, tornavo a casa con mio figlio ma questa volta il figlio ero io. Quel pomeriggio mi sarebbe arrivata una pizza, il bellissimo pensiero di una collega, Carla, che me l’avrebbe fatta arrivare. Era quasi nel luogo in cui si lasciano le cose per la consegna ai pazienti quando fu raggiunta dalla notizia delle mie dimissioni. Ricevetti un messaggio con la foto della pizza che mi stava portando e la felicità di non poterlo fare si stravide nei suoi occhi. La felicità di non poter portare a termine quella consegna fu grande, immensa, fu una magnifica sorpresa.
Pensavo di non avere più lacrime per quante già ne avevo consumato. Invece no, mi sbagliavo. Ancora una volta mi si bagnarono gli occhi per il gesto, per la gioia. Ero a casa. Da quell’esperienza ne sono uscito frantumato, terrorizzato, l’isolamento insieme alla paura mi avevano fatto a pezzi. La mia malattia era stata una guerra con me stesso, paura di non poter vedere più nessuno, paura di non poter dire neanche un “ciao”. Erano state mescolate le priorità e le inutilità, invertito il loro posto.
Riconsiderai atteggiamenti e comportamenti che non mi sembravano più di buon senso e che al pensiero, mi lasciavano senza fiato, senza respiro.
Da quasi cinque anni, non abitavo più nel mio paese, ed ora avevo voglia solo di tornare, di riviverlo, avevo voglia di tornare a casa.
E’ stato come se quel “fatto”, avesse tirato una linea, cambiato tutto, fatto vedere tutto in un’altra luce. Tante cose essenziali non lo erano più. Non m’ero accorto dei “miei anni” non ci avevo fatto caso. Vivo, ora, una vita più aderente alla mia età, non stressata, non esagerata. Mi prendo cura di me, in un perfetto equilibrio tra l’impressione di un’età che non hai e la realtà di un’età che hai. Insomma da quel giorno mi si era capovolta la vita, non più quella di prima, non più le cose di prima, mi si era stravolta all’improvviso. Ci tenevo a tante cose che mi erano diventate all’improvviso indifferenti, inutili altre non vedevo l’ora di togliermi davanti.
Rimasi chiuso a lungo nelle mie paure, nell’attesa e nella speranza che il tempo curasse le ferite. Rimasi a lungo ad aspettare che tutti i pezzi frantumati ritrovassero il posto giusto, rimasi a lungo ad aspettare di “convincermi che stavo bene”, convincermi di dover far ritorno alla normalità perduta. Ho raccontato la mia storia con tutte le fragilità, con tutte le debolezze e con tutte le sue paure. Una storia di sicuro affrontata nel peggiore dei modi. Molto mi è pesata la separazione, la divisione dagli “affetti”, l’abisso della solitudine e l’angoscia. Ogni volta che ci penso, mi scende ancora un velo di tristezza, un velo di tristezza che sono sicuro, al pensiero, non mancherà mai.
Sono tracce incancellabili di una malattia che ti chiude in una stanza e in una infinità di cattivi pensieri che a volte fanno più male della malattia stessa.
Oggi voglio solo dire: ricominciamo. “Ricominciamo” da dove eravamo rimasti, quel “ricominciamo” che ha il sapore di un regalo, un dono, un privilegio a tanti negato.
Facciamo finta che non sia successo niente, diciamo che “ci è andata bene” o magari soltanto che è “acqua passata, tutto dimenticato”. Solo, non è così.