Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico
Quella cazzo di curva dell’angolo più avanti casa mia che ogni giorno “prendevo” un centinaio di volte, quella volta la “presi” male.
La bici si piantò sul marciapiede ed io andai a sbattere la testa contro il muro.
Mi alzai da terra quasi subito, ed il mio primo pensiero fu quello di controllare se la bici s’era rovinata.
E fu proprio mentre controllavo la bici che mi accorsi di avere la maglietta sporca di sangue ed intorno un po’ di persone spaventate che erano accorse in mio aiuto.
Una corsa in ospedale, due punti di sutura sulla fronte ed io preoccupato più per la bici che per me.
Passò tutto in fretta, quella curva la “presi” con uguale velocità altre cento volte senza più andare a sbattere.
Poi cominciammo a declinare “ rosa, rosae, rosae, rosam, rosa, rosa” a studiare malvolentieri il “latino”.
Arrivarono gli anni della “contestazione” io per la verità contestai poco e meno male perché mi accorsi presto che chi contestava più di me, alla fine, su delle giuste e importanti battaglie, s’era accomodato come mai io che contestavo così poco mi sarei sognato di fare.
A scuola c’era sempre quella ragazza con lo sguardo rivolto verso di me ed io invece con lo sguardo rivolto verso un’altra del banco più avanti.
Eravamo la “plateale intuizione” dell’amore irraggiungibile.
E intanto il colore bianco e il colore nero, si incontravano a quadri o dividevano gli abiti a metà, oppure si alternavano a scacchi.
Era la moda “pop” della fine degli ani ’60.
Quei vestiti semplici e corti che tanto piacevano a Mariù.
Quel mio essere un po’ svogliato e un po’ monello, fece la differenza, il quinto commerciale lo feci due volte, la prima volta a penna e con bella scrittura, c’era scritto in bacheca accanto al mio nome: non ammesso.
L’anno dopo però il diploma fu mio, conquistato sul campo con il minimo dei voti.
Il “pallone” rubava tempo allo studio, tanto che in alcuni momenti mi vedevo già impegnato a giocare su campi con erbetta bagnata e centomila spettatori.
Rimasi forse un mediocre nello studio e nel pallone.
Woodstock segnò una fine ed un inizio, ci avvertì che il mondo stava cambiando.
Gruppi rock arrivarono all’improvviso travolgendo tutto e tutti con la loro musica e le loro mode.
E noi eravamo già pronti a cogliere ogni segnale di cambiamento.
I capelli lunghi furono causa di liti in famiglia, poi i nostri genitori si abituarono e noi li facemmo crescere sempre più.
Quel sogno di volare, mi faceva alzare lo sguardo ad ogni rumore che attraversava il cielo.
Ma fu un sogno destinato a infrangersi molto presto.
Mi rimase comunque il sogno di una “vita spericolata” sin quando finì per incrociare la cosa più semplice e più naturale che potesse capitare di fare ad un “ragioniere” diplomato col minimo dei voti.
Dimenticavo di dirvi che l’estate che seguì la mia solenne bocciatura, andai ad aiutare un amico “imbianchino” che in quel periodo, era impegnato a imbiancare i locali della Chiesa del mio rione.
Ero puntuale ed anche bravo.
Un bel giorno vidi affacciata al balcone della casa dall’altra parte della strada, un’amica che non sapevo abitasse lì.
Lasciai secchio e pennello, attraversai la strada per andare a salutarla.
Ero schizzato di colore dalla testa sino ai piedi, ma quell’aria di lavoratore impegnato, mi donava, o almeno così mi disse quell’amica. forse per non farmi pesare tutta quella colorazione che avevo addosso.
La festa di San Pietro e Paolo era alle porte e a casa quell’atmosfera “punitiva” si sentiva sempre meno.
La vigilia della festa andai a ritirare la mia paga. Rimasi un po’ deluso rispetto all’impegno che ci avevo messo ma la festa iniziò comunque.
Quella mia breve e intensa esperienza di “pittore” finì in quella Chiesa del mio rione messa a nuovo, e quei quattro soldi e quegli sguardi interessati e romantici che si incrociavano tra lei affacciata al balcone ed io in equilibrio da sui gradini di una scala poggiata al muro, furono solo un ricordo che si perse tra tanti.
Con quell’amica ci incrociammo la sera della festa sulla pista delle autoscontro vicino all’edificio scolastico.
Lei guidava e insieme a lei c’era un amico comune, io guidavo e insieme a me c’era un’amica comune.
In pista ci cercammo per tutta la durata della corsa, anche di quella dopo e anche di quell’altra dopo.
Fu proprio sul finire che lei arrivò sulla fiancata della mia macchina in gran velocità, facendomi quasi sobbalzare fuori dall’abitacolo.
In lei intravidi chiaramente la soddisfazione per quell’urto violento che gridava vendetta, ma ormai la corsa era finita e benché spingessi l’acceleratore la macchina non si spostò di un millimetro.
Con la coda dell’occhio vidi lei che ancora rideva, ma tanto io feci finta di niente.
Gli avrei dato una sonora lezione ma quella voce che al microfono annunciava: GETTONI ALLA CASSA. ALTRO GIRO, ALTRA CORSA, la salvò.
Intanto partiva un nuovo giro e insieme un nuovo disco: LO STUPORE DELLA NOTTE SPALANCATA SUL MAR, CI SORPRESE…………….
Quel disco ci accompagnò tutta l’estate e poi ancora tutta la vita.
Ma allora non lo sapevamo.
Quell’estate passò in fretta troppo in fretta, mi aspettava una nuova classe con ragazzi e ragazze che già conoscevo e che si preparavano ad affrontare l’ultimo anno. Lo stesso anno che malinconicamente mi preparavo ad affrontare io per la seconda volta.
L’aula era la stessa ma a me mancavano da morire i miei vecchi compagni di classe che oramai vedevo raramente e stranamente e come poche altre volte, capitava di sentirmi un po’ asino.
Mi accorgevo man mano si andava avanti col programma, che dell’anno prima avevo conservato ben poco. Quasi niente.
Per l’intero anno scolastico mi sentii fuori luogo e fuori posto, non era la mia classe, non c’erano i miei compagni di classe con cui avevo condiviso cinque meravigliosi anni.
Infinite volte mi chiesi: “Ahhhhh… se avessi studiato un po’ di più”.
Avevo imparato la lezione. Quell’anno in più mi fece crescere più in fretta, mi fece capire tante cose, e vi posso dire che potendo vivere altre mille vite, non capiterebbe mai più.
Fu una grande delusione, la prima grande delusione che diedi ai miei genitori e in particolare a quel “compagno” di mio padre a cui negai quella volta, la gioia e l’orgoglio di avere un figlio diplomato, di avere un figlio “ragioniere”.
Certe cose non si dicono e lui infatti non me lo disse mai, certe cose si capiscono, si capiscono dagli sguardi, dai dettagli, ed io capii che dopo un po’ mi aveva già perdonato.
Io no, io a perdonarmi ci misi di più. Ci misi molto di più.
……………….continua