La Casa Del Tavolo Ovale.
ai miei fratelli Annina e Paolino,
e a chi come noi ha vissuto mille vite.
Sono andati tutti via
La nonna, nostro padre, zio Nino, le zie.
Ognuno ci ha lasciato qualcosa
nella casa che adesso dorme
A chi volesse di noi
non servirebbe neanche risalire le scale
né spingere appena quella porta
così dolcemente socchiusa
per entrare di nuovo in paradiso.
Le pareti vibrano ugualmente
di voci e di sussurri,
le pentole nere nel camino sono ancora calde
e il tavolo ovale, benché nudo,
profuma intenso di pane e di racconti.
C’è quel silenzio quasi di meriggio
quando l’estate gonfiava il basilico sui balconi
e dagli scuri serrati delle finestre
il bagliore del sole disegnava sul pavimento
lame di luce taglienti come pensieri.
Siamo sempre tutti lì,
a cogliere un tempo che ci è stato donato,
fatto di stagioni scolpite,
di uomini di terra, di donne madri e sorelle,
di bambini da crescere.
E se anche dolore c’è stato,
in quel piccolo regno solido e sereno,
i rami delle nostre anime
hanno sanguignamente tenuto
alle disperanti ferite,
rinnovando gl’immacolati pudori
del nostro forte respiro.
S’accende ad ogni passo il calendario limpido
di quelle vite inestinguibili,
e ogni ombra si scosta
al ricrescente battito dei sempre freschi giorni.
Oggi è certo domenica:
c’è suono di violino nelle stanze,
e la tovaglia brilla di sughi rossi e di mani.
L’archetto di zio Nino, un ricamo nell’aria,
accompagna la danza
del frusciare dei grembiuli.
I candidi letti trapuntati di fiori
sembrano campagne odorose,
e splendono gli specchi lucidati dei comò
quante volte coperti
per tenere lontani i temporali d’autunno.
«Àzzate, san Giuvanni, e nu durmire,
ca vìsciu tre nuvèje caminare:
una d’acqua, una de vientu,
una de tristu mmaletiempu…».
Risale fragoroso il palpitante teatro
delle tempeste inattese,
tra il frenetico chiudere d’imposte
e il correre di sedie nella stanzetta buia,
con lo smarrirsi d’occhi
al folgorante crepitio di tuoni e vento.
«Àzzate, san Giuvanni, e nu durmire…»:
anche tuono è la voce di zia Teresina,
prima alta poi quieto riparo,
e non è detto che sia rimprovero o preghiera
quel governare saldo la cadenza dei cori
che copre il fremito delle nostre paure.
Tra i lampi che rimbalzano sui vetri,
le deboli grida si distendono oltre i muri
e presto toccheranno il cielo.
Poi sarà come sempre è stato:
la sera tornerà a riempirsi di stelle
e il tavolo ovale s’infiorerà di noi,
pronti a seguire la nonna nel mistero.
La nonna è la nostra fantasia,
il nostro carro felice.
Quando viene a sedersi, d’inverno specialmente,
le nebbie e il freddo si diradano,
e i cavalli volano ovunque,
portandoci in luoghi di spaventosa tenerezza.
Non scopriremo mai la fine di quei viaggi
sempre uguali e diversi,
«…e camina, e camina…»
anche domani ci addormenteremo.
Nostro padre rincasa in punta di piedi
e origlia i nostri sogni.
Per altre mille vite riconosceremo
il suo carezzante silenzio.
Adagia il cappello sulla panca di noce,
siede al tavolo in compagnia dei suoi pensieri,
scopre il piatto, e si versa da bere.
Dal largo bicchiere
il vino spande riflessi arcobaleni:
s’indora di albe e di tramonti,
ed è sole, ed è luna,
mare rosso che sale verso la notte piena.
Di quei bicchieri di vino
sono segnate le nostre sere di settembre,
quando i contadini venivano
per la paga della vendemmia
e li asciugavano tutti d’un fiato
augurando alla nostra salute.
Avevano volti di rame e mani d’ulivo,
i loro occhi erano lucenti e profondi
come i pozzi dei desideri.
Tornavano a Natale
con ceste colme d’uova e di formaggi,
che zia Cetta e zia Triestina svuotavano,
riempiendole coi loro dolci di cannella.
Così era ogni volta, in quell’aria d’abbraccio,
quando la casa sempre aperta
s’apriva al venire della gente,
e gli uomini di terra
diventavano maghi e cavalieri,
e apparivano fate, e la figlia del re.
Dov’eravamo allora?, e in quale tempo?
Finché i nostri figli ci regaleranno altri padri,
e madri, e candidi letti trapuntati di primavera,
ogni giorno respireremo
le rigogliose storie di quei giorni.
E il tavolo ovale
sarà ancora un’aia di feste e d’infinito,
un veliero che va,
attraversando tutti gli orizzonti,
oltre sorella morte, oltre la vita.
Antonio Mele ‘Melanton’
Roma dicembre 2003.
Nota dell’Autore. (dic.2013)
Fra i vari simbolismi contenuti in questa poesia (che mi è particolarmente cara), rivelerò per la prima volta – a dieci anni dalla primigenia scrittura – questo piccolo segreto: nei versi 16°, 46°, 72°, 113° sono rispettivamente contenuti, in successione, e in ordine di tempo, i nomi delle quattro stagioni: …estate …autunno …inverno …primavera.
Questa è la vita: che si sviluppa nella sua bellezza rigogliosa e solare; che poi declina; infine si spegne, diventa gelida; ma sempre torna a rifiorire.