Rubriche/di Piero D’Errico
L’occasione mi fu data dal convegno organizzato dal mio sindacato.
Lo slogan era un invito ad affrontare un’ urgenza, una necessità: RIGENERIAMO L’AGRICOLTURA.
Sì, perchè proprio di quello si doveva parlare, proprio di quello si trattava.
Si doveva discutere della fine di un ciclo durato tanto, forse troppo e l’inizio di uno nuovo “diversamente simile”.
Eravamo nell’atmosfera magica di un castello e quella magia che si respirava, pur conservando il tema del convegno, fece effetto su di me sino a trascinarmi nel racconto che vi sto per raccontare.
Quell’incontro mi diede modo di pensare, ripercorrere gli ultimi 50 anni di “memoria contadina”, memoria che ho vissuto e che ricordo come fosse ieri, per il lavoro che svolgevo e che ancora svolgo.
Quell’agricoltura che lasciava pochi terreni incolti, che riempiva distese immense di tabacco, di grano, di angurie, quelle “viti” che si arrampicavano intorno a fili di ferro sino a farne un’opera d’arte, quegli ulivi secolari scalfiti dal tempo che sembravano dire: BENVENUTO, SEI IN PUGLIA.
Quell’agricoltura che insieme a tanta fatica e sudore, riusciva a dare anche un po’ di reddito.
Quell’agricoltura ora abbandonata, riempita a tratti con freddi e malinconici pannelli solari.
“….Incontrai in una uggiosa giornata romana, un Ministro dell’agricoltura, uno di quelli bravi, proprio bravo.
A lui affidai quel progetto che cominciava con un convegno e descriveva quel contrasto folle e bellissimo tra il mondo agricolo che solo osservando il cielo, i suoi colori, le nuvole che lo attraversavano, capiva quello che sarebbe successo sino ad arrivare ai giorni nostri quando tutto è diventato imprevedibile, quando tutto è diventato distruzione.
Ebbi, bontà sua, il parere favorevole del Ministro, avrei organizzato un convegno nazionale, il titolo già lo sapevo:
L ‘AGRICOLTURA AI TEMPI DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO, il tema mi sembrava stupendo, il contrasto, le differenze tra l’agricoltura dei miei tempi che seguiva metodicamente le stagioni che avrebbero difficilmente non obbedito al proprio ruolo e il cambiamento furioso del clima che non obbediva più a niente.
Ti aspetti il caldo perchè così è sempre stato e arriva il freddo, ti aspetti un po’ di pioggia e ti arriva un sole che, come diceva mio padre, spacca le pietre.
Quando le “annate” rispettavano “il tempo”che le coltivazioni richiedevano, quando l’acqua rinfrescava e il sole maturava ed arrivavano quasi sempre puntuali, magari qualche giorno prima o qualche giorno dopo, ma eravamo là.
Ed oggi come si fa? Come si fa a coltivare senza quel ritmo lento e piacevole delle stagioni, le stagioni che maturano e che addolciscono ogni prodotto.
Come si fa oggi, in pieno cambiamento climatico, a coltivare? Oggi che le stagioni sono confuse e capovolte.
Mi sarei occupato io di tutto, dalla location in poi, avevo come si dice carta bianca, avevo già assicurata la presenza dei grandi della politica, della produzione, esperti di clima, di sole, di vento, di pioggia.
Ci saremmo chiesti dove stavamo andando.
L’idea mi affascinava, c’era da lavorarci su e pure tanto, mettere in contrasto la vecchia agricoltura che seguiva il ritmo delle stagioni, il vecchio contadino che guardava il cielo, che capiva il cielo e che a volte vedevi correre a coprire il tabacco steso al sole ad essiccare per la pioggia in arrivo, in quel contesto ancora perfetto ed in perfetto ordine.
Osservare poi il cambiamento del clima, il disordine perfetto, la produzione sofferente e malinconica per il troppo caldo o il troppo freddo non previsto perchè non aderenti la stagione che attraversavano.
Con un pizzico di nostalgia mi sarei e avrei chiesto, come si fa a non fidarsi più delle stagioni, come si fa a coltivare affidando tutto al tempo che si confonde e come adattare le coltivazioni agricole al cambiamento.
M’ero messo all’opera, il Ministro era quasi entusiasta e a volte euforico.
M’ero perso in quel progetto, forse troppo, non riuscivo a pensare ad altro, a distrarmi un po’.
Avevo da sempre cantato “voglio una vita tranquilla” ma ben presto mi accorsi che non era più così.
La carriera e l’importanza, non avevano mai fatto effetto su di me. Fu così anche quella volta.
Quattro righe, tre di ringraziamento e una di dimissioni.
L’indomani mattina ero in treno, in viaggio attraverso campi coltivati, verso casa.
Tornavo in una magnifica giornata di primavera e di sole, quelle giornate né calde né fredde, quelle classiche giornate di primavera che avevano trovato spazio un po’ in tutte le altre stagioni, quasi mai in quella giusta.
Mi illusi in un attimo che ogni cosa fosse tornata al suo posto, ogni cosa tornata al posto giusto.
Non era così.
Quando arrivai alla stazione del mio paese, lampi e tuoni squarciavano il cielo.
Sembrava inverno.