Rubriche/di Piero D’Errico
Quando finalmente trovai il coraggio di manifestare i miei sentimenti e avevo messo all’angolo la mia timidezza, non senza sofferenza, le chiesi con voce emozionata, ma sicura, un appuntamento nell’angolo della villa non lontano dall’angolo dove di solito si ritrovava tutta la classe, appena una ventina di metri più avanti.
E se mi avesse dato un orario, qualsiasi ora mi andava bene, mattina, pomeriggio o sera per me era indifferente.
Niente di tutto ciò che avevo pensato, niente.
Accennò un sorriso ma poi mi disse che ci saremmo trovati al solito posto insieme a tutti, nell’angolo della villa dove sempre ci trovavamo.
Mi disse che era felice quando stava insieme a tutti noi, che non aveva nulla da dire da non far sentire anche agli altri, né di voler sentire qualcosa da nascondere agli altri.
Insomma, non voleva sentire nulla che andasse oltre una bella amicizia.
E quella già c’era.
Rimasi male ma non glielo feci capire, dissi che la settimana successiva non ci sarei stato al solito posto perchè avevo da fare un po’ con mia madre.
Era solo una bugia, la mia vendetta, non mi sarei fatto vedere, avrei fatto il prezioso.
Ci trovavamo da sempre in quel solito posto, poi da lì si partiva insieme per il centro, un gelato, un pezzo di pizza, una passeggiata sempre in mezzo a tante risate.
Insomma lì organizzavamo le nostre serate ed erano una più bella dell’altra.
Ma torniamo indietro al momento in cui io, risentito, le dissi che non mi sarebbe stato possibile per un po’ di tempo farmi vedere.
E lei: se non sarà possibile vederci intorno a quel sedile tutto scarabocchiato con tutte le nostre firme, i nostri nomi, le nostre frasi e i nostri cuori, ci ritroveremo sicuramente in giro, il paese è piccolo.
E infatti in giro ci incontrammo lei con sua madre ed io con la mia.
Qualche parola e poi ci salutammo.
Dopo uno o due giorni, non ricordo, ero già al solito posto, all’ angolo a sud della villa, di nuovo con tutti e stranamente ebbi come l’impressione che della mia assenza non se ne fossero neanche accorti
Di quell’appuntamento non se ne parlò più, tutto tramontato, tutto passato, anche per me.
Ogni momento è legato ad una canzone e noi ragazzi eravamo innamorati della musica, seguivamo il festival bar.
Quell’anno mi ricordo cantavamo a squarciagola quello che per noi era diventato un inno, faceva così: noi siamo i giovani i giovani più giovani.
Si eravamo i giovani più giovani, con nessuna voglia di crescere.
Ci sembrava tutto facile, la felicità ci sembrava a portata di mano, poi a mano a mano ci siamo accorti che la felicità non esiste se non in piccole dosi, pochi minuti in qualche giornata, in qualche altra giornata, niente.
Era quello il periodo più bello, quello che avremmo ricordato, raccontato e rimpianto.
Il fatto è che nessuno ci chiese mai se volevamo diventare “grandi oppure no”.
Qualche tempo dopo ci trovammo già “grandi” all’improvviso, forse senza neanche accorgercene e forse senza neanche volerlo.