Rubriche/di Piero D’Errico
Ho iniziato questa rassegna estiva, raccontandovi di Peo così mi chiama quel piccolino di colore che abita vicino a casa mia, ed ora che siamo quasi in conclusione, vi racconto un po’ anche della nostra estate, di quei pezzi d’estate che abbiamo trascorso insieme.
L’ho portato molto spesso con me, in giro per le spiagge più belle e più sicure.
L’ho portato con me nei villaggi più lontani e più vicini e lui ha cantato e ballato.
Sempre puntuale, alle 21,00 quando si apriva il sipario con lo spettacolo per bambini, era lì.
Ha navigato in acque tranquille seduto sul dorso dello squalo Shark o a bordo di un canotto su cui c’era spazio solo per lui.
Abbiamo attraversato i posti più isolati e più affollati, bastava che ci fosse il mare.
Ha conosciuto tanti, tanti friends ma ogni tanto mi chiedeva di Gabriel, il suo più caro amico di scuola.
E forse per questo ogni tanto si svegliava la mattina che voleva andare a school e quanto gli dicevo che la scuola era chiusa, ci restava male.
Mi ha fatto prigioniero, mi ha tolto infradito e chiavi della macchina per essere tranquillo che non sarei andato via.
Ha nascosto le ciabatte e le chiavi dove agli occhi di un bimbo potevano sembrare al sicuro, dove non potevano essere viste. Non era mai così.
La sera poi eravamo sempre alla ricerca di luna park nei paesi che festeggiavano il santo patrono o nei paesi che organizzavano la sagra di qualcosa.
Poi quando c’era vento, quando il mare era mosso, si andava in piscina, ma in una piscina grande non come quella che i suoi genitori avevano gonfiato sul balcone di casa.
L’ho portato con me in tutti i bar, in tutte le pizzerie, in tutti i ristoranti a mangiare “pizza tonno e pasta sugo” e lui mi ha fatto conoscere Pocoyò, Peppa pig e Cocomela.
E’ stato bello vederlo felice, è stato bello vederlo sorridere, è stato bello farlo divertire, è stato bello vedere come i bambini non guardano il colore della pelle, non si accorgono neanche se altri bambini hanno un colore diverso.
Per me è stato come restituire quel credito che la vita deve loro, è stato come togliere quel peso che ancora oggi troppa gente ha, forse a ragione, nel pensare siano figli di un Dio minore, di un Dio più povero.
Poi è volato ad Oslo con i genitori a trovare il fratello, my brother, che studia lì e che non vedeva da un anno.
Mi hanno chiesto di andare con loro anche mentre si allontanavano per prendere il volo e forse anche mentre l’aereo si alzava in volo.
Non potevo, proprio non potevo.
Immagino la sua felicità nel salire di nuovo su un fly, un desiderio che lo accompagna sempre e tutte le volte che passiamo davanti a quell’aereo militare stagliato al centro del rondò nei pressi dell’aeroporto. Mi dice di fermarmi : “io vuoi salire”.
Ci siamo fatti compagnia, ci siamo divertiti e ancora, se il tempo sarà generoso, non è finita.
E mentre tolgo via le briciole e lavo lo sporco di gelato e di cioccolato dalla macchina, lui continua da lontano, da Oslo, a farsi sentire vicino ed è felice, straordinariamente felice.
Mi telefona cento volte al giorno, mi mandano video e foto in cui lo sento e lo vedo strafelice, glielo leggo negli occhi.
Di solito la sua felicità diventa la mia, ma a sentirlo così, da così tanto lontano, forse non è così.