Spuntavano un mattino, tra gladioli e gerani, ma i fiori di campo erano sempre i più belli.
I primi temporali e le prime piogge annunciavano la fine dell’estate.
Intorno un profumo di terra bagnata, l’aria più fresca e le giornate più corte.
Per le strade un via vai di carretti carichi d’ uva appena raccolta.La vendemmia era iniziata e il paese era in fermento, era come in festa.
Era un appuntamento importante, era una tradizione importante, un rito che ogni anno si ripeteva nella sua infinita bellezza, nella sua grandezza.
“Sarà un’ottima annata”, temperatura giusta, il sole quando ci voleva, l’acqua quando ce n’era bisogno.
“Sarà una brutta annata” troppo caldo, troppo sole, troppa acqua, troppo freddo.
Insomma ogni anno portava con se gioia e dolore a seconda della raccolta, della resa.
Era comunque una festa, si lavorava, si cantava e si ballava al ritmo di quelle usanze tramandate da secoli.
Si raccoglievano o meno i frutti di un duro lavoro nei campi, dall’alba al tramonto, un lavoro fatto di sacrifici e di stenti e non era raro arrivasse all’improvviso una grandinata a rovinare tutto, non era raro guardare il cielo diventare nero all’improvviso, quasi buio, quasi notte.
Vedere negli occhi dei “contadini” la tristezza e l’amarezza per il lavoro e il raccolto perduto.
Non ricordo di aver letto mai nei loro occhi, la “rassegnazione”.
Ricominciavano sempre, sempre con il solito entusiasmo, sempre con il loro grande amore per la terra.
Sapevano già, avevano già messo in conto il fatto che non dipendeva solo da loro, dal loro lavoro, dal loro impegno, molto dipendeva dal cielo, molto dipendeva da Dio.
Non so perché ma cantavamo a squarciagola: “quel mazzolin di fiori, che vien dalla montagna“.
Quella canzone la conoscevano e la cantavano tutti, però era una canzone di montagna, noi non eravamo in montagna, noi eravamo in campagna.
E quando questa riflessione la feci ad alta voce a mio nonno, lui mi fece: ” E’ uguale, è sempre la natura è sempre la bellezza del creato, è tutta bellezza che noi abbiamo trovato”.
E poi spegnendo quel sigaro arrivato quasi a metà e scrutando il cielo senza stelle: “pioverà !”, mettendosi quel che restava di quel sigaro nel taschino del gilè.
Non era neanche l’alba e già pioveva e mio nonno sull’uscio di casa a finire quel mezzo sigaro rimasto dalla sera precedente.
Non aveva neanche finito di fumare quel mezzo sigaro rimasto e già si vedeva in lontananza un’alba chiara e luminosa.
E mio nonno con la bici maschile e la zappa dietro, partiva contento.
Forse la giornata non era persa.
Era uno degli ultimi giorni di settembre, ma quella fu come una giornata di agosto.
Tornò che era già sera, si vedeva a stento, quasi non c’era più luce, portò dei “fiori di campo” come spesso faceva.
Sopra una mensola c’era una foto ingiallita dentro una cornice vecchia e arrugginita. C’era a fianco un bicchiere un po’ più grande.
Lo riempiva d’acqua dal “pilone” e lì metteva i fiori di campo appena raccolti.
Non ricordo chi fosse in quella foto, era di un Santo a cui lui era devoto, ma non ricordo chi fosse e non c’è più nessuno a cui chiederlo.
Ma se c’è un Santo che protegge il “raccolto” era sicuramente lui in quella foto scolorita.
So che quei fiori di campo avevano mille colori, che il loro profumo addolciva il profumo del sigaro del nonno.
Erano fiori di campo che nessuno piantava, nessuno curava, cercavano spazio per crescere, per respirare, forse per guardare.
Spuntavano un mattino, tra gladioli e gerani, ma i fiori di campo erano sempre i più belli.
Li portavano alle spose o alle mamme, le ragazze li mettevano tra i capelli,
erano come dipinti su un prato, o su un quadro con matita e pastelli.