Il Sedile

“Generazione di Fenomeni”

Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico.

Ci ritrovammo quasi tutti in quella Chiesa gelida e triste, tra le foglie cadenti
di un autunno che stava per lasciarci.
C’eravamo lasciati ragazzi, mentre attraversavamo gli anni più belli della
nostra vita e ci ritrovavamo in quell’età numericamente catalogata come la
“terza” o quasi.

Qualcuno lo avrei sicuramente riconosciuto, altri no.
Cambiati dai segni che lentamente e inesorabilmente lascia il tempo.
Cominciammo a parlare di tutto, di noi della nostra vita, carriera, fortuna e
sfortuna.
Delle nostre avventure, dei nostri guai, ma dopo un po’ si finiva
sempre per parlare dei nostri figli, di come se la passavano, cosa facevano,
dove stavano.
Furono tante le sorprese nel sentire i nostri discorsi, la vita si era di sicuro
divertita tantissimo ad invertire passioni e ambizioni.
Il più “creativo” era finito nel chiuso di in archivio, mentre quell’altro che
odiava i numeri, che faceva fatica a ricordare le tabelline, che non aveva mai
chiuso una espressione algebrica, era in banca a conteggiare interessi e valuta.
Noi che avevamo brillantemente superato le “difficoltà della crescita”, noi,
una “generazione di fenomeni” eravamo finiti dall’altra parte, dalla parte
opposta ai nostri sogni.
Qualcuno conservava ancora qualche “foto insieme”, qualcuno era abbracciato
a quella che poi era diventata moglie, qualcun altro a quella che poi era
diventata “ex”.
Tra di noi il “filosofo” del gruppo, lo chiamavamo “taciturno” e aveva la
grande capacità di dividerci su argomenti, su temi che lui improvvisamente
tirava fuori.
Si autodefiniva il saggio, l’intellettuale, il combattente comunista diventato
assessore al suo comune in un partito che stranamente quasi odiava i
“comunisti”.
Il tempo s’era infilato nei nostri capelli, facendoli, quando li aveva lasciati,
bianchi e poi aveva lavorato a lungo per farci perdere la dolcezza delle
nostre forme, adeguandole alla nostra età.
Prima che il prete ci dicesse “andate in pace” noi lo avevamo già fatto,
eravamo fuori e anche in pace, a parlare ancora.
La cerimonia era finita e noi ci avviavamo lentamente verso l’uscita e
verso i saluti.
Il giorno dopo ognuno sarebbe tornato al suo paese, al suo lavoro, qualcuno
aveva un lungo viaggio da affrontare.
“Domani sciopero” quasi gridò il “taciturno” mentre usciva.
La parola “sciopero” risvegliò in noi quei momenti di grande entusiasmo,
quei momenti di “scampato pericolo” , quando quella giornata di sciopero
ci aveva salvato. Insomma, la parola “sciopero” ci aveva sempre unito,
al di là delle motivazioni.
Tanto c’era sempre qualcosa che non andava, che non funzionava, oppure
c’era sempre un vecchio o un nuovo ideale per cui lottare.
Eravamo fuori dal cancello di quella Chiesa, sotto uno spicchio di luna che
compariva e poi spariva, a contare gli ideali raggiunti e quelli no, e arrenderci
al malinconico pensiero di non averne quasi più.
Ci salutammo tutti con un “arrivederci” qualcuno aggiunse “a presto”.
Forse ci saremmo ancora rivisti o forse no.
La luna nel frattempo era sparita.

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