Il “consenso” in politica unisce due interessi: quello di avere un voto per far “liberamente fare” e quello di dare un voto per poter “liberamente fare”.
Rubriche/Opinioni/di Piero D’Errico
Basta chiudere un occhio, a volte tutti e due, o girarsi dall’altra parte se si tira su una costruzione abusiva o se ci sono 10 tavoli in più in una piazza.
Basta concedere qualche autorizzazione in più o qualche “deroga” non dovuta e che sarebbe stato meglio non dare ed ecco formarsi il “consenso”.
Il formarsi del “consenso” nella illegalità, nel silenzio che lascia fare, che lascia fare tutto quello che non si potrebbe fare, pur di costruirlo.
“Consenso” sicuro perché unisce due interessi, un interesse ad avere il “voto” lasciando fare e un interesse, con il voto, al perpetuarsi della illegalità da parte di chi è investito dal lasciar fare.
Si costruisce trasformando, con compiacenti complicità burocratiche, i “servizi” offerti da una pubblica amministrazione in “favori” gestendo di fatto quei “servizi” come cosa propria, in maniera clientelare.
Si truccano appalti e concorsi, si agevolano amici ed ecco il “consenso” è già formato per ringraziamento, per riconoscenza, per interesse.
Ovvio non si tratta di un “consenso politico” non si raccoglie intorno ad un’ idea, alla costruzione di una città, le sue strade, il suo commercio, il rispetto delle regole, i programmi culturali, il verde, le piazze, le scuole.
Alcuni hanno una ricaduta politica importante per il lavoro che svolgono, un bravo professionista, uno stimato imprenditore, un premuroso medico.
Hanno un consenso politico per il lavoro che svolgono, per come lo svolgono, non per meriti politici.
Con l’aggravante che a volte, i due ruoli non sono sovrapponibili nel senso che un bravo professionista non sarà necessariamente un bravo politico pur avendo avuto il “consenso”.
I ruoli sono diversi, in uno (politico) si investono soldi non propri, spesso si bruciano, per la costruzione del “consenso”. Nell’altro (professionale) si investono soldi propri per migliorare, per programmare, sviluppare e senza guardare al “consenso”.
Da troppo tempo il “consenso” non si costruisce più intorno ad un’idea di città, da troppo tempo si costruisce su altro.
A volte viene travasato, da parte di qualche referente più importante, più di peso e più di potere, al “subalterno scugnizzo”.
A volte il “consenso” si costruisce su promesse personali (assunzione, incarichi) o più generali ( legalità, trasparenza ) salvo poi a smentirsi il giorno dopo.
Funziona così, si vota per ribellione, per rabbia, si vota l’amico, il parente, il conoscente non chi è più ricco di belle letture, di belle esperienze, non chi sa leggere in anticipo i tempi e gli eventi.
E così si finisce a volte per eleggere chi per 1000 e più ragioni non darà alcun contributo in termini di proposta e di idee. In cambio darà molto a se stesso.
Per questa “raccolta differenziata” del “consenso” dovuta a fattori esterni alla politica è precipitato ovunque il livello della politica stessa, avvitata tra bla..bla..bla.. e comizi che sono “lettura a cantilena di compitini” scritti da altri.
Io ho amato follemente la politica, ero sempre all’inseguimento di qualche leader che mi affascinava con i suoi ragionamenti, la sua intelligenza, mi piaceva seguirlo nei suoi discorsi, nei commenti, insomma mi piaceva chi mi comunicava un progetto, una visione di Paese, disegnava il futuro dei prossimi cinquanta anni e più.
Disegnava strade, autostrade, porti e aeroporti, mi affascinavano quei ragionamenti che facevo fatica a seguire ed ero sempre in prima fila davanti al palco.
Poi venne un giorno in cui mi ritrovai sul palco.
Noi prime file davanti al palco, eravamo diventati all’improvviso “politici”.
La verità era che tra noi e loro c’era un abisso, una incolmabile differenza, come incolmabile è rimasta la differenza tra noi e chi è arrivato ancora dopo.
Quando le sezioni di partito non c’erano quasi più, quando gli organi di partito non esistevano più, quando l’attività politica delle sezioni, che formava le nuove generazioni, non si faceva più.
Mi trovai ad un tratto impegnato a preparare “scalette” che non avrei rispettato o di sicuro dimenticato, quando magari la parola giusta tardava ad arrivare, quando le ripetute pause mi facevano tremare ed ancor più mi faceva tremare la paura di vedere la piazza vuota.
O anche la possibilità che la foga del discorso mi facesse sbagliare qualche congiuntivo o qualche sostantivo.
Mi avvitai solo pochissime volte ma la fatica di scrivere e imparare il copione unita all’ansia del “poco prima” allora mi faceva sudare, mi faceva tremare.
Ora invece a ripensarci mi scappa un po’ da ridere.
Mi è rimasto un vago interesse per quel che accade nel mio Paese e nel mondo e francamente vi dico che, se pensando ai miei tempi mi scappa da ridere, se penso a “oggi” mi viene da piangere.