Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico
Comunista, questo si.
Comunista a prescindere, senza se e senza ma, come si era allora.
Mai un dubbio, mai un ripensamento.
Quando si dice: comunista per sempre.
S’incontravano spesso in quel luogo che era il crocevia di ogni
ragionamento, la sintesi del pensiero comunista che attraversava
l’umanità, la sintesi di ogni ragionamento su cui di solito c’era la
convergenza di tutti.
Era in un “salone” storico in piazza San Pietro il loro incontro, oltre
che per barba e capelli, per parlare soprattutto di politica.
Era lì che si svisceravano sani ragionamenti, carichi di speranza e di
fiducia per un domani migliore, con più uguaglianza, più diritti, più
umanità.
Erano “intellettuali di strada”, discorsi in dialetto e ragionamenti che
non facevano una piega, lontani dai palazzi del potere, dagli scandali
e dalle lottizzazioni.
Erano intellettuali di strada che avevano il senso della dignità, della
parola data, di una linea politica che non cambiava ogni giorno,
avevano il senso della coerenza, del bisogno dei poveri e dei lavoratori,
rimasti sempre al centro di ogni loro pensiero.
Il suo orgoglio, fu avere un figlio diplomato, “RAGIONIERE”,
per lui una cosa molto importante, la garanzia del non ripetere la sua
vita.
Per questo fu molto contento, quando Piero seppur con un leggero
ritardo e con il minimo dei voti, si diplomò presso l’Istituto Tecnico
Commerciale.
Quel “salone” era la seconda gamba del comitato centrale del PCI.
Falce e martello incrociati la loro fede, la loro appartenenza, esibita
coraggiosamente alla luce del sole e con tutti gli effetti discriminatori
che allora comportava.
Erano anni di lotte e di ideali e loro impegnati a diffondere il verbo di
Pajetta, Amendola, Ingrao e tanti altri.
In quel “salone” si celebravano le vittorie e si commentavano le sconfitte.
Tra compagni.
Il suo era un mestiere di precisione, un po’ pesante, fatto sino a tarda età.
Il gioco delle carte lo portava spesso a fare tardi, una bici femminile quasi
sempre sgonfia, vecchia e scricchiolante, lo portava da una parte all’altra
della città, soprattutto in piazza.
“Nazionali” senza filtro, sfuse o in pacchetto, con cui iniziare la giornata
appena sceso dal letto.
Si spense senza cambiare idea, concedendosi una sola trasgressione politica,
quella di tradire il PCI le volte in cui fui in lista con i “socialisti”.
Solo allora, solo quelle volte di sicuro ha tradito il suo partito e chissà il
sacrificio, la fatica nel portare la sua mano a crociare un simbolo che non
era il suo.
Si spense consapevole che il sogno comunista era rimasto solo un “sogno”,
l’immaginazione di una società diversa e più giusta che non arrivò mai e
loro avevano pagato il prezzo più alto.
Fece sempre fatica ad ammettere che tante lotte furono inutile, altre
sbagliate, altre tradite.
Si spense senza accorgersene in una triste giornata di gennaio, si spense
senza mai cambiare idea, se mai lottando per cambiare quella degli altri,
con la sola preoccupazione, il pensiero fisso di fare tutto per i figli, vivere
per i figli, fare tutto per loro e poco, troppo poco per se stesso.
Se ne andò come dormendo, tra i saluti di tanti “compagni” e tanti amici
che diedero l’ultimo saluto a “mesciu Rafele”.
Penso che se avesse potuto scegliere una musica di sottofondo, avrebbe
sicuramente scelto “Bella ciao”.
Se per caso a Piero è rimasta qualcosa di buono, lo deve a lui.
Tra tante cose dette e altrettante non dette, caro mesciu Rafele, potresti
essere sfiorato ogni tanto dal dubbio d’essere stato dimenticato. Ti sbagli.
Non ti abbiamo dimenticato, nessuno ti ha dimenticato.
Manchi sempre, “compagno”.
Ti volevo chiedere “come stai” ?
E poi, conoscendoti, rassicurarti: STIAMO TUTTI BENE.