Cresciuto tra scuola e Chiesa, tra studio e oratorio…
Galatina – Cresciuto tra i profumi di periferia, quei profumi che solo la periferia può regalarti. Quei profumi che non si dimenticano mai.
Tra pozzanghere d’acqua che il sole con la sua pazienza provvedeva ad asciugare e distese verdi a pochi passi da casa.
Tra scuola e chiesa, tra studio e Oratorio.
Qualche peccato confessato e perdonato, non ricordo più con quante “Ave Maria” o quanti “Padre nostro”. E ricominciare con gli stessi errori, gli stessi peccati, in quell’età di mezzo tra bugie e disobbedienze.
La Chiesa era il nostro ritrovo, la nostra seconda casa, il luogo dove ci incontravamo, il luogo di arrivo, il luogo di partenza.
Nell’Oratorio c’erano i nostri giochi, il nostro campo di calcio, lì organizzavamo ogni cosa, i tornei, le gare, le gite.
Intorno a noi c’era sempre lo sguardo attendo di un “padre” affettuoso e premuroso che ci aiutava, ci incoraggiava, ci suggeriva.
E la domenica tutti presenti in Chiesa alla messa delle nove, e se si sentiva qualcuno chiacchierare, dall’altare arrivava lo sguardo e anche il rimprovero del “padre” che celebrava la messa.
Insomma la Chiesa ci vedeva crescere e ci vedeva crescere anche bene.
Volevamo vedere finita la nuova Chiesa che si stava costruendo a fianco, vendevamo giornalini, chiedevamo offerte, eravamo volontari, eravamo ancora ragazzi.
Sognavamo di veder finita la Chiesa, la nostra nuova casa.
Poi sono passati un po’ di anni, siamo cresciuti e forse un po’ ci siamo allontanati, il nostro posto preso da ragazzi più giovani.
Poi ci siamo trasferiti, abbiamo cambiato rione, abbiamo cambiato Chiesa, pregato poco e in Chiesa cantato poco.
Tanti valori sono rimasti, tanti valori li abbiamo persi.
Preghiamo dentro di noi e ogni tanto parte un’occhiata all’orologio, non vediamo l’ora che la messa si concluda.
Ma alla Chiesa e all’Oratorio, che ci ha visto crescere, si resta sempre affezionati e tutte le volte che si passa davanti, c’è sempre e ci sarà sempre un saluto, ci sarà sempre un ricordo, di amici, di sere, di giochi e di preghiere.
Se chiudo gli occhi mi rivedo vestito da chierichetto a servire messa con gli occhi spalancati, attento a non sbagliare a non commettere errori, a non distrarmi.
C’era Gesù che mi guardava e c’era anche qualche vicina di casa, qualche amica e non volevo fare una brutta figura.
Sono cresciuto così, nella pace e nel poco.
I lavori di costruzione della nuova Chiesa, dopo anni, furono terminati.
Venne su una grande e bella Chiesa sulla strada principale e ogni domenica la gioia di vederla piena.
Nel frattempo, si alternavano tanti “parroci” e salutarli quando andavano via, fu sempre un dolore.
Quella volta in Chiesa, avevamo organizzato una “recita” e anch’io avevo “una parte”.
Dovevo soltanto entrare in scena, dire una battuta in dialetto e far esplodere il pubblico del teatro in una fragorosa risata, così forte da far suonare le campane.
Pur nella sua brevità, avevo ripetuto la “battuta” per tutta la settimana, avevo studiato tempi e tonalità. Credevo di aver vinto la timidezza di stare sul palco.
Era tutto pronto, anch’io.
C’era il teatro strapieno, gente in piedi ed io dietro le quinte ad aspettare il mio ingresso in scena.
Sbagliai il tempo, sbagliai le parole, sbagliai il tono, quella sala strapiena, era e resto’ in silenzio.
Sentii solo due persone del pubblico, in fondo alla sala, scoppiare a ridere.
Erano mia nonna e mia zia.
Non suonarono le campane non suonarono le campanelle ed io chissà perché anche a distanza di così tanti anni, quando mi capita di raccontare questa storia, divento ancora “rosso” .
Conoscendomi bene, questa volta nel raccontarla, ho aperto già la finestra, voglio
sul mio viso un po’ di aria fresca.
Fuori è freddo, fa vento e pure piove, ma non basta a chiarire il mio “rossore”.