E poi restano i ricordi, tornano all’improvviso, ti prendono e ti tengono per ore.
Galatina – In quei tempi, non c’era un solo pezzo di terra su cui non era piantato in qualche punto, un albero di fico.
Era così pure in campagna di mia nonna, circondata tutta da quegli alberi.
Ce n’erano di tutte le varietà e qualità, ma l’albero di fico fiorone restava il RE.
Sdraiato a due passi da casa sulla sinistra, alto e forte come una quercia, immenso ai nostri occhi.
E la terra su cui cresceva, bella, rossa e battuta, finissima come sabbia e noi alla sua ombra a fare tutto ciò che facevamo nell’arco della giornata.
Insomma si svolgeva tutto tra i suoi rami e la sua ombra, e lui sembrava felice, contento d’essere stato scelto, contento di stare sempre in compagnia.
Ci arrampicavamo tra i suoi rami, ci esibivamo in giochi acrobatici, restavamo appesi con la ginocchia agganciate ai suoi rami e con la testa in giù poi, quando stanchi, ci tiravamo su.
E quell’altalena costruita alla meglio, che ci vedeva dondolare e a volte volare.
Una volta ci siamo arrampicati a turno sulla sua cima più alta per spiare dentro un nido di uccelli e ricordo anche che in pochi minuti avevamo già costruito un arco con le frecce, un aquilone, un fucile o una spada.
Ricordo le sere con la luce della luna e quando la luna si assentava per qualche motivo, c’era la luce del lume a petrolio.
Eravamo sì poveri, ma il fatto che si stava ancora col “petrolio” dipendeva dalla linea elettrica che ancora non arrivava in tante campagne.
Quei racconti, seduti a cerchio, che raccontavano tratti di vita vissuta, che raccontavano di lavoro, di miseria, di raccolto e noi ancora bambini che ascoltavamo in silenzio con occhi sbarrati e increduli, che ascoltavamo come si ascoltano le favole.
Quel ritmo della “zambuca” e quei canti popolari urlati a squarciagola tutti insieme per farli arrivare alle campagne vicine.
Insomma ogni sera era come una festa, una festa di amicizia, una festa per ridere, una festa per scherzare e forse anche per dimenticare.
Qualcuno ci aveva raccontato che i desideri che si esprimevano sotto quell’albero, si sarebbero realizzati e a noi di sicuro i desideri non mancavano.
Solo ne avevamo troppi e troppe volte li cambiavamo con altri che ci venivano in mente e che sostituivano i vecchi. Forte erano troppi, forse erano complicati.
Non tutti i desideri e non tutti i sogni furono realizzati, ma lo abbiamo perdonato, fa niente, quell’albero di “fico fiorone” ci ha fatto il regalo più grande, ci ha regalato i sogni, ci ha regalato il sogno di poter vivere quei sogni e che per noi diventava magia, diventava poesia.
La sua ombra ci ha riparato dai pericoli, ci ha visti crescere, ci ha visti raccogliere e mangiare i suoi frutti. E se stavano troppo in alto c’era sempre l’uncino a tirar giù i rami e farli arrivare alla nostra altezza.
Quando poi quell’estate siamo tornati e non l’abbiamo più trovato, ci siamo sentiti persi, ci siamo sentiti soli, quell’estate ci mancarono i sogni, i desideri, i racconti, quel posto aveva perso la sua incantevole magia.
Forse abbiamo dimenticato il sapore della “fica fiorone”, forse non ci piace più, ma il sapore di quei momenti no, non l’abbiamo mai dimenticato.
Quei ricordi sono rimasti lì, a farci compagnia.
Tornano all’improvviso, ti prendono e ti tengono per ore.
Poi vanno via, ritornano nel cuore.