Rubriche/di Piero D’Errico
Le strade sterrate costeggiavano ampi spazi non ancora ricoperti dal cemento e noi a correre per strada, a rotolarci sui prati, volare aquiloni che noi stessi costruivamo raccogliendo il necessario qua e là.
La sera poi su quel muretto a raccontarci, qualcuno con qualche fetta di pane e olio in mano e il pallone quasi sgonfio parcheggiato in un angolo a riposare.
La fantasia era il nostro forte, giocavamo a nascondino, facevamo corse, ci divertivamo su quelle strade sterrate rincorrendoci come fulmini.
E poi la sera ci raccontavamo i sogni, ci raccontavamo quello che avremmo fatto da grandi, le cose più straordinariamente impensabili, la macchina che avremmo comprato per andare al mare.
Ogni tanto qualcuno si affacciava lamentandosi del chiasso che stavamo facendo o per quel vetro di finestra rotto nel pomeriggio, ma tanto noi il pallone lo avevamo messo già in salvo.
Sotto quel lampione in cima a quel palo di legno, che diffondeva una luce fioca e gialla, passavamo ore e ore.
Il momento dei saluti e della buona notte, era sempre un dispiacere .
Siamo cresciuti così tra le cose più semplici e belle, tra natura, spazi aperti, giochi inventati e il forte desiderio di andare dove i nostri genitori ci raccomandavano di non andare: la ferrovia.
Sulla ferrovia camminavamo sui binari che ci sembravano infiniti e ci fermavamo nei caselli abbandonati a rubare qualche mela verde.
Abbiamo vissuto così i nostri anni più belli, tra l’ Oratorio e gli angoli più nascosti del rione.
Se eravamo felici? Si, eravamo immensamente felici e perdutamente innamorati di quel nulla che avevamo.
Poi ci siamo fatti grandi e ci siamo persi di vista, forse non ci riconosciamo più e forse non tutti vivono più su questo mondo.
Di quel muretto e quel lampione non c’è più traccia, è rimasto solo nei nostri lontani e indimenticabili ricordi
E quando il primo dei genitori, si affacciava alla finestra o usciva per strada, chiamando ad alta voce il proprio figlio o la propria figlia, a giro uscivano poi tutti gli altri rispondevamo quasi in coro con le nostre vocine dal suono straziante:
“ANCORA 5 MINUTI”.
Chiedevamo solo cinque minuti. Ci bastavano.