Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico
Eravamo in quel bellissimo posto che ai nostri occhi era il più bello del mondo.
La villa di un amico di scuola che oltre ad essere il più bravo era anche il più
ricco.
Eravamo quasi sempre una ventina tra amici di università e non, ed era un
appuntamento fisso.
Ogni anno, ad inizio estate sapevamo di doverci trovare là.
I discorsi sempre quelli, giravano intorno a racconti del presente e del futuro,
giravamo intorno a sempre nuovi progetti.
Eravamo cresciuti insieme ed eravamo rimasti straordinariamente affezionati.
Avevamo tutti qualche anno più di venti e tranne qualcuno, noi ancora studenti, aspettavamo che la vita lavorativa si aprisse da lì a breve davanti a noi.
Tra tutti mai mancarono un ragazzo e una ragazza che ricordavo insieme sin
dal primo anno del commerciale e beati loro, il loro amore, il loro attaccamento, i loro sguardi non erano cambiati neanche un po’.
Insomma erano la nostra invidia.
Eravamo seduti intorno a quel lungo tavolo bruciato dal sole e sopra di noi un
pergolato di rara bellezza.
Era il posto più bello del mondo, sopra la nostra testa grappoli di uva bianca,
dondolavano spinti da un leggero venticello estivo.
Intorno alberi di frutta e di ulivo e le voci dei nostri discorsi e delle nostre
risate che coprivano il cinguettio degli uccelli che passavano da tutte le parti.
Mangiavamo le cose più tradizionali, più popolari, più genuine, preparate
tutte dalla madre di quel nostro amico che era sempre il più bravo e anche il
più ricco.
Il vino era rosso e non bastava mai e scoprivamo solo dopo che era sicuramente colpa sua se i discorsi avevano sempre più, meno senso oltre a non finire mai.
Spiccava tra tutti, sempre quella coppia cresciuta sui banchi di scuola, sempre
discreti, sempre simpatici, sempre allegri e sempre composti.
Non ricordo più com’è che cominciò, ma tra le tante voci si distinse ad un
tratto la voce di lui un po’ alterata che rivolgeva a lei accuse a dir poco
sgradevoli.
Mentre lei che urlava più di lui, cercava di farlo ragionare, di fargli ricordare
fatti e circostanze che non potevano essere vere.
Insomma nel bel mezzo della festa che con tanta gioia ogni anno aspettavamo
era scoppiata proprio tra la coppia più tranquilla e più longeva, una lite
furibonda.
“Colpa del vino rosso “ pensammo un po’ tutti e quando qualcuno cercava di
intervenire e di calmare la coppia, echeggiava nella campagna circostante una
frase già sentita sin dai tempi delle elementari: – fatti gli affari tuoi-.
Nessuno riusciva a capire le cause di quel furioso battibecco che rischiava di
rovinarci la giornata e allora altro non rimase da fare che togliere dal tavolo
posate e bicchieri.
La più arrabbiata era lei sin quando non le cominciò a scendere qualche lacrima.
Poi silenzio, lui non parlò più e quando finalmente anche lei finì di gridare,
tornarono sul tavolo posate e bicchieri.
Poi riprese la voce di lui, ma solo per dirle: MI VUOI SPOSARE ?.
Era stato uno stupido scherzo di lui, farla arrabbiare per poi chiederle di
sposarlo.
“NO” disse lei quasi senza voce e poi dopo qualche secondo, capito lo scherzo,
che tra l’altro in quel momento avevamo capito anche noi, rispose di “SI” e si
perse in un pianto di rabbia e di gioia.
A noi altro non rimase che fare a loro gli auguri.
Appena due mesi dopo erano “sposi” e qualche anno dopo ci presentarono il
loro “pupo”.
Quella scena negli anni successivi, fu replicata da più d’uno, ma noi furbi
l’avevamo già capita.
Intanto continuavamo a festeggiare l’arrivo della bella stagione come sempre,
ma ormai ogni anno eravamo sempre di meno.
Poi si sa tutto passa, con qualcuno ci si sente ancora, con altri no, con altri
non più.
Ci sparpagliammo nel mondo e non ci fu né modo né occasione per incontrarci.
Quell’amico ricco e bravo è sempre in giro per il mondo impegnato in conferenze e incontri e sua madre che per tanti anni ci aveva preparato tante cose buone era volata in cielo qualche anno dopo.
Quella casa in campagna rimasta ormai vuota è stata venduta ed è stato realizzato il sogno di quel nostro sincero amico che aveva sempre voluto che a comprarla fosse uno di noi, uno della compagnia.
Così è stato e così almeno, ogni tanto, quando si ha voglia di ricordi, si può andare a riscoprire quell’incantevole magia che ancora la circonda.
Intorno tutto è cambiato, ma quella pergola sembra come scolpita, aggrappata forte a quei fili di ferro arrugginito, con quelle sue foglie verdi che lasciano spazio a grappoli d’uva bianca che giorno dopo giorno maturano.
Sotto, in mezzo c’è ancora quel solito tavolo bruciato dal sole su
cui sono scritti tutti nostri nomi, disegnato qualche cuore e incise tutte le date
in cui ogni anno c’eravamo trovati. Si fermavano al 18 luglio 1977.
Quanti discorsi quella pergola ha sentito, quanta allegria, quanti progetti.
Ci ha visti crescere, maturare anche noi di anno in anno, con noi i nostri discorsi i nostri racconti.
Avevamo cantato, ballato e imitato John Lennon e tutte le volte che ci avevano
chiesto: -cosa vuoi fare da grande?-, come Lui avevamo risposto:
ESSERE FELICI.
Con inchiostro rosso quasi indelebile, che ogni tanto ripassavamo, quella frase
l’avevamo scritta su quel tavolo bruciato dal sole: ESSERE FELICI.
E forse c’eravamo riusciti. Almeno un po’.