Rubriche/di Piero D’Errico
Era l’unica cosa che sapevo ed è rimasta l’unica cosa che ricordo.
“Facevamo compito in classe” e mi sentii all’improvviso importante, sentii intorno tutto il peso di sguardi disperati sopra me.
Volevo suggerire quell’unica cosa che sapevo a tutti per avere poi un credito tutte le volte che mi sarei aspettato un suggerimento, un aiuto che sarebbe arrivato o no.
Preparai un bel po di cartuccelle, avrei potuto pure confezionarle più piccole ma non ci pensai molto.
Il Prof. non avrebbe visto di sicuro dietro quegli occhiali che si mantenevano in equilibrio instabile e quelle lenti a “culo di bottiglia”.
E invece no. Il Prof. intercettò il mio primo lancio e da lì in poi cominciarono i miei guai.
Mi sequestrò con un balzo felino, tutte le cartuccelle che avevo preparato e quel grido “VAI FUORI !!! fu sentito anche dai paesi vicini.
Che strana la vita pensai.
I miei compagni di classe sapevano tutto tranne quella cosa, io invece non sapevo nulla tranne quella cosa.
Parlo di matematica, di formule e teoremi.
Avevo sentito dire più volte, nessuno è indispensabile in questo mondo ed infatti andò così anche quella volta.
La classe se la cavò abbastanza bene, io no.
Io rimediai quel due nel secondo trimestre e superai brillantemente a settembre l’esame di riparazione.
Il risvolto più bello però fu quando al rientro dal castigo, vidi la compagna di classe a cui era diretta la mia cartuccella, con gli occhi un po’ rossi e lucidi. Si sentiva in colpa per quanto era successo. Era a lei che avevo indirizzato la cartuccella, ed era a lei che ci tenevo di più.
Si sentiva in colpa ed io mi sentivo il suo eroe, per lei avevo rischiato la vita, oh no scusate! la bocciatura.
Diventammo amici più di prima, sino a quando la stessa scuola che ci aveva fatto incontrare, ci divise.
Dimenticavo di dirvi la cosa più importante.
Sfidai ancora quel caro Prof. di matematica un po’ genio e un po’ pazzo, e qualche mese dopo, sempre durante un compito in classe, inviai una cartuccella alla solita ragazza di prima.
No, la cartuccella non trattava la risoluzione di alcun problema, avevo scritto una frase molto dolce e molto bella, quelle frasi stupide e romantiche che si scrivono a quell’età.
Avevo anche disegnato una serie infinita di cuori trafitti da una freccia.
E lei la aprì, diede uno sguardo ma non diede importanza.
Ci rimasi male. Ma come !!!
Preferiva impegnarsi su ciò che aveva scritto il Prof. alla lavagna e non su ciò che le avevo scritto io.
E comunque di cartuccelle non ne mandai più.
Prima di abbandonarci ai nostri destini, in quell’ultimo anno del commerciale, promettemmo solennamente che ci saremmo rivisti tutti insieme, tutta la classe, almeno una volta l’anno.
Così fu per cinque anni e quello era il quinto.
Era una sera d’estate, quelle sere d’estate calde e con un venticello che porta tutt’intorno un profumo di fiori di campo che non sai descrivere, quelle sere che avevamo promesso di continuare a passare insieme, quando tra tanta allegria dovuta soprattutto al vino, saltò fuori all’improvviso quella cartuccella amorosa che avevo inviato alla ragazza vicina al mio banco.
La lesse ad alta voce e la mostrò a tutti, svelò un segreto che non aveva più motivo di esistere, superato com’era stato dagli eventi successivi.
Furono momenti di ricordi, quella cartuccella era stata conservata perfettamente, sembrava appena scritta, i colori rimasti intatti, l’aveva conservata, custodita, chissà dove.
Quella serata piena di ricordi finì così, ci salutammo in attesa di altre serate che non arrivarono più.
Arrivò il marito, con il figlioletto tutto sua madre, a prenderla, si abbracciarono, poi salutò noi e la loro macchina sparì dietro quegli alberi di eucalipto che costeggiavano la strada.
Restammo ancora lì in pochi, era tardi, era scesa un po’ di umidità anche intorno ai miei occhi, il cielo stellato e la luna piena facevano il resto, facevano un dipinto d’autore.
L’avevo vista felice ed anch’ io lo ero. Per lei.