Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico
Parlo di un luogo abbastanza piccolo, che si riempe completamente di gente d’ estate e si svuota completamente finita l’estate.
Lontano dal paese più grande e con due sole famiglie stabili che restano lì per tutto l’anno.
Per quasi 10 anni frequentammo d’estate quel posto, una famiglia delle due che abitavano tutto l’anno, era a pochi passi da casa mia.
Quella famiglia era la prima che salutavo quando arrivavo e l’ultima che salutavo quando andavo via, lasciandola sempre lì.
Quel posto era strapieno di gente solo in estate, d’ inverno diventava un posto deserto, spettrale da far quasi paura appena scendeva il buio.
Mi hanno sempre affascinato quelle località di villeggiatura che si svuotano completamente d’inverno per affollarsi appena si affaccia l’estate, mi sono sempre chiesto le sensazioni di chi tra un’estate e l’altra, rimane sempre lì.
Mi sono da sempre chiesto come sarà, stare sempre lì, come sarà stare lì ad aspettare che ricominci la vita e in attesa guardare intorno desolazione ed abbandono.
Quale sensazione si prova, con quale stato d’animo si vive, tra il silenzio assordante di un lungo inverno e i rumori forti di una breve estate.
Ero così affascinato dalla curiosità, che era ancora l’inizio di giugno, quando trovandomi al mare passai davanti alla casa della famiglia che abitava sempre là.
–Buon giorno signora come va? – le faccio.
Eravamo diventati amici ed io andavo sempre con mille scuse a farle centomila domande per cercare di capire le sensazioni del restare in un posto dove “si vive” solo un periodo, dove c’è vita solo per un po’, poi niente mentre tu resti lì ad aspettare che riprenda a vivere.
E sempre io: –Signora come ha passato l’inverno ?–
–Ciao Piero- mi fa lei – sei diventato un ometto come va ? –
-Bene, ma tu come hai passato l’inverno?-
E lei – Ho raccolto la pace, la quiete, i rumori del silenzio. Ho raccontato di come la vita che si ferma è come un giorno che muore. Poi ho sentito i primi rumori, le prime voci, ascoltato il suono delle parole, delle risate, il pianto di un bimbo, ascoltato parole che feriscono e ascoltato parole che guariscono. Ho guardato gli alberi che si spogliano e poi un bel giorno mi sono accorta che cominciavano a rifiorire. Qui c’è un inizio e c’è una fine, non c’è continuità, devi solo aspettare, aspettare che si calmi il vento, che migliori il tempo, che fiorisca il campo” -.
Poi si girò e andò via, ma prima di chiudere la porta mi fa: – vienimi a trovare mi raccomando, ti racconterò tutto quello che vuoi sapere-.
Ed io così feci.
Mi raccontava com’è stare tanto tempo in un posto senza più tempo ad aspettare. Aspettare in inverno la confusione e aspettare in estate la solitudine.
Essere soli, camminare da soli lungo viali e strade dove non riuscivi a camminare per la confusione.
Tra manifesti lunghi sei metri, un po’ strappati e un po’ sbiaditi con data, luogo e ora del concerto.
“Eravamo in tanti in quella serata calda e umida, le magliette per il sudore erano appiccicate sulla pelle.
Eravamo in tanti a cantare, a stonare a perdere la voce”.
E poi l’edicola chiusa, anche il bar che non chiudeva mai, la pizzeria e quell’ “APE” all’angolo carico di frutta.
Poi la lenta e inarrestabile processione di macchine strapiene di cose che vanno via, tornano in città.
Passi così dal rumore al silenzio, dal sentirsi in “centro” al sentirsi completamente abbandonato.
E mentre tutto passa tu resti lì, resti lì ad aspettare che il sole riprenda a riscaldare.
Il contrasto bellissimo tra il veder tutto in movimento e poi tutto fermo, immobile, neanche un caffè, neanche un’anina in giro.
Muoversi tra la folla e poi trovarsi soli, con intorno tutte le tracce dell’estate passata, appuntamenti per sagre, feste, concerti.
Passi da un posto troppo affollato ad un posto isolato, abbandonato, non più curato, quasi al buio, l’ illuminazione che non funziona e che resterà così sino alla prossima estate, siepi che arrivano in cielo ed erba ovunque.
Pozzanghere d’acqua, qualche finestra che sbatte, qualche cane che abbaia.
Poi ti svegli un giorno e vedi il sole che illumina la casa, il sole che comincia a bruciare e senti voci in giro, senti un via vai intorno,
ricomincia la vita e di nuovo musica e ombrelloni, tutto aperto, tutto nuovo, nuove insegne, nuovi colori, nuove canzoni e tanta gioia addosso alla gente.
Qui non c’è una via di mezzo tra il tutto e il niente, tra un silenzio surreale e un chiacchiereccio senza fine, senza orario.
Vedi l’estate finire come in una lenta agonia, ogni giorno meno gente in giro, ogni giorno meno ombrelloni, ogni giorno l’aria più fresca e il buio che arriva sempre un po’ prima.
–Com’è signora affacciarsi un giorno e non veder più nessuno e poi riaffacciarsi e vedere una vita senza freni, un movimento che non finisce neanche la notte -.
Lei: – qui la vita si ferma e poi riparte -.
Quella signora amava le sensazioni forti, quella tristezza forte che ti prende quando il villaggio si svuota e quell’altrettanta gioia che ti prende quando il villaggio si riempie.
Aveva bisogno di colori forti o di nessun colore, era inserita, forse rapita da quel contrasto, non aveva più bisogno del tempo di mezzo, quella misura di mezzo che noi invece viviamo.
Lei stava bene così, era interamente assorbita da quel ritmo, quell’assenza da tutto il resto, da tutto quanto dà il giro completo del tempo.
Per lei il bicchiere era pieno o era vuoto, i colori erano bianco o nero, non amava quelle sfumature del bianco o del nero, quei colori di mezzo.
Passai tanto tempo nel giardino della sua casa davanti a un bicchiere ghiacciato di orzata che lei mi offriva ogni volta.
Ero troppo incuriosito ma non ho capito mai il perchè.
Seppi che aveva raccontato nei minimi particolari, su un giornale, le sensazioni, gli stati d’animo che ti regala un posto dove si inseguono solitudine e confusione, dove si insegue il silenzio e il frastuono.
Sarò sincero. Quella signora non c’è mai stata.
Ero io, solo io, io stesso.
Ero io che ho cercato di immaginare attraverso quella dolcissima signora, senzazioni e stati d’animo di un posto che si spopola e tu resti là e dello stesso posto che si ripopola e tu sei sempre là.
Lo stato d’animo di chi rimane improvvisamente solo, di chi si sente improvvisamente solo.
Ho da sempre saputo che farne una “descrizione” non sarebbe mai stata cosa facile ma ho tentato di farla, non so se l’ho fatta bene, so che ci tenevo e nessun piacere nel leggerla potrà essere pari al mio che l’ho immaginata e scritta.
Una cosa che mi ha affascinato e incuriosito sin da ragazzo e che finalmente sono riuscito a descrivere quasi in una sorta di liberazione.
L’autostima non è stata mai il mio forte ma questa volta mi dico: “Bravo Piero” e poi un complimento per una volta ci può stare.
Voi mi perdonerete. Sono sicuro.