Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico

Avevamo attraversato l’Europa in cerca dei concerti rock più graffianti.
Eravamo usciti fuori dai confini del nostro Paese.
Eravamo andati sino a Berlino per ondeggiare le braccia sotto il palco, avvolti da un fumo che non veniva di sicuro da una vecchia ciminiera.

Conoscevamo tutti i ghetti dell’ Havana, prendevamo il caffè nel bar che frequentava Hemingway, poi ogni tanto passavamo da Trinidad per assaporare l’ebrezza e la incredulità di continuare a sopravvivere anche senza corrente elettrica.

Nel centro di Bangkok avevamo chiesto informazioni in lingua inglese ad un napoletano.
Poi mentre le ideologie volgevano al termine, siamo impietriti davanti a qualche capello bianco.

Poi ci siamo affezionati alle telenovelle del giovedì e quando leggevano l’oroscopo non abbiamo più cambiato canale.
Poi qualche chilo in più e qualche invisibile ruga che si affacciava.
Non ci siamo affezionati più alle cose inutili, diventavano sempre meno importanti e anche le rate trentennali del mutuo, volgevano al termine.

E la macchina nel frattempo, aveva scaricato tre volte il contachilometri con la stessa frizione.
Non frequentavamo più il solito ritrovo, ci sentivamo “fuori luogo” e intanto erano arrivati tanti giovani che non conoscevamo.
“Ogni stagione ha il suo vestito” – diceva mio padre e la nostra aveva messo il vestito dell’autunno.

Di tanti amici, nessuna traccia e tutt’intorno stava cambiando il mondo.
Poi arriva una sera d’estate che all’improvviso ti mette le ali, hai voglia di uscire, di fare tardi, di vivere un po’ di notte.
Telefoni ai vecchi amici rimasti, ed hanno la stessa voglia.

Una vecchia balera ancora aperta, una di quelle a cui noi avevamo consumato il pavimento.
Il giovedì si paga poco e c’è musica anni ’60, ’70. Si va.
E fu così che finimmo in quella vecchia balera sul mare carica di ricordi.
Era lì che avevamo festeggiato l’ultimo anno del Commerciale ed era lì che con il mio 36/60 avevo partecipato a pieno titolo.

“Noi” arrivati su un motorino scoppiettante e con la paura che da un momento all’altro si sarebbe fermato per sempre.
Quella sera ci portò a destinazione, ma qualche giorno dopo non partì mai più.
Stesso posto, stessa musica, stesse canzoni, quarant’anni dopo e “lei” sempre lì come stampata in mezzo al cielo, ci aveva già riconosciuto.

Quella stessa luna, ad illuminare due amori diversi. Quella stessa luna che aveva illuminato un amore quarant’anni prima, quella stessa luna era lì a illuminare un amore arrivato dopo e che si era fermato per sempre.
Quella sera volevamo fregare il tempo, imbrogliarlo.
E se per caso ci avesse chiesto – perché così arrabbiati? – tutti insieme gli avremmo risposto: “Saresti potuto andare più lentamente. Cazzo!!

Si comincia al ritmo dei “Watussi”.
Non ricordiamo più né movimenti, né passi, ci troviamo a formare posizioni diverse rispetto al resto dei “ballerini” e via nella notte a fare sempre peggio e riderci addosso.
Poi mentre stavamo raccogliendo a malincuore le cose per andare via stanchi e sudati, sento partire le note di una canzone che riconosco subito e che arrivano dritte al cuore.
Comincio a cantare a squarciagola, ricordo tutte le parole, tutte le pause, poi si aggiunge la voce di un altro della comitiva, poi di un altro ancora, poi di tutti e anche di altri che come noi si allontanavano dalla balera.

Arrivammo sino a casa cantando le note di quella canzone, la cantammo così forte da restare senza voce nei giorni a venire.
Quella canzone la conoscevamo tutti e noi l’abbiamo fatta arrivare alla luna:
“…..e lo obbligavo a dirmi sempre, sei bellissima, sei bellissima, accecato d’amore mi stava a guardare….”.
Quella fu l’ultima notte d’estate, l’ultima notte di quell’estate difficile da dimenticare.

C’eravamo divertiti a prendere in giro il tempo, c’eravamo divertiti un sacco a riavvolgerlo, l’avevamo obbligato a tornare indietro e alla fine si era arreso e forse anche divertito.
Poi ci siamo salutati con la promessa di ritornarci.
Sono passate un paio di stagioni e per un motivo o l’altro, non ci siamo più tornati, siamo ancora ad aspettare.

Mi è capitato di passare, poco tempo fa, dalla strada che costeggia quella antica balera.
Era “giovedì” ed era musica anni ’60, ’70.
Ho rallentato un attimo per ascoltare la canzone che quel Deejay, nostro coetaneo, stava “lanciando”.
Soffiava un vento contrario e non riuscii a distinguere le note di quella canzone, anche perché suoni, cenni, “titoli” e clacson mi obbligarono ad accelerare.

Ci infilammo nella notte per raggiungere casa e mentre tornavamo comitive di ragazzi e ragazze, si preparavano ad affrontare la notte, una nuova notte di divertimento, una nuova notte “insieme”.

Correvano a vivere momenti “normali” che con gli anni sarebbero diventati “speciali”.
Si preparavano a ballare la loro musica, cantare le loro canzoni.
Si preparavano a vivere quei momenti che il tempo non avrebbe avuto mai il coraggio di sciupare.
Quei momenti che solo “lui” sa trasformare in bellissimi ricordi, in meravigliosi e incantevoli ricordi.
Solo ci metti un po’ a scoprirlo, ci metti un po’ a capirlo.
Ed è un vero peccato.