Rubriche/di Piero D’Errico

Non ho mai capito esattamente il motivo per cui tornata al suo villaggio per un breve periodo, non le fu più consentito tornare ad Oslo, lì dove aveva lasciato il figlio Cristian di appena un anno col padre.

La sua vita non fu più la stessa, ma alle difficoltà era abituata per cui con coraggio continuò a viverla con un pensiero in più.

Continuò a seguire attraverso il padre ciò che di là succedeva e di là succedeva che l’istituzione norvegese considerato che il padre per lavoro era quasi sempre fuori, affidò il bambino ma non nel senso giuridico del termine, ad una signora del luogo.

Per i primi contatti diretti con il figlio, passarono quasi otto anni poi arrivò qualche messaggio, qualche video chiamata.

Cris, così lo chiamavano, sapeva tutto, gli avevano raccontato come si racconta ad un bambino, tutto, tutta la verità senza mai aggiungere una parola in più e mai una parola brutta.

E fu così che ogni Natale, la trovò in fila all’ufficio postale a spedire un pacco a Cris pieno di piccole cose e di grande amore.

Quel pacco costava sacrifici e rinunce ma a lei non pesavano. 

Ma, cominciamo dall’inizio.

Per poterlo un giorno incontrare aveva un piano e aveva già deciso. Viaggiò per ore su un camion strapieno, attraversò villaggi e deserti. Dopo mesi arrivò in Libia in un campo insieme a tantissimi altri che, come lei, fuggivano dal loro paese.

Poi un barcone di notte, in una serata senza luna, rannicchiata e impaurita in un angolo. Poi  Lampedusa e da lì a Torino.

Cominciò così quel calvario che chiamano accoglienza mentre  per il rilascio del permesso di soggiorno mancava sempre qualcosa. E intanto gli anni passavano tra una via crucis di commissioni e lunghe e interminabili attese in Questura.

Aveva attraversato l’inferno ma ben presto si accorse di essere  finita in un altro inferno.

Finalmente arrivò quello straccio di permesso di soggiorno e fu festa.

Finalmente il mondo si era accorta di lei, della sua esistenza, le avevano consegnato una tessera di plastica, il permesso, quindi esisteva.

Cominciò l’altro dramma: il lavoro.

Quando finalmente lo trovò, cominciò a mettere 10, 20 a volte anche 50 euro da parte ogni tanto, appena poteva, appena aveva   la possibilità. Ed il figlio e lei stessa cominciarono ad avere il desiderio di conoscersi, di raccontarsi.

Cominciarono a sentirsi sempre più spesso, quella grande persona che lui chiamava “mom” e che lo aveva cresciuto, non aveva mai messo ostacoli, aveva sempre favorito e preparato l’incontro dolcemente e lentamente come si doveva.

Ad ogni passo, avvertiva l’autorità che le aveva affidato Cris.

Fissò la sua partenza che era appena arrivato l’inverno, si mise d’accordo sul lavoro e cominciò in anticipo a prepararsi.

Senza mai essere sfiorata dall’ idea di strappare suo figlio dall’ ambiente in cui era cresciuto e consapevole del fatto che lì avrebbe avuto un avvenire migliore di quello che lei poteva dargli. Voleva solo vederlo, sapere che stava bene e che lei c’era e ci sarebbe stata per sempre.

Voleva sconfiggere quel senso di colpa che l’aveva accompagnata per tanto tempo.

Cominciò in anticipo a preparare le cose da portare e le cose da indossare, voleva ben figurare e recuperare un po di quel tempo perduto.

Sarebbe stata lì dal 15 al 22 luglio.

Ed il 15 luglio arrivò, fece ritardo rispetto al fortissimo desiderio, ma arrivò.

Telefonò che era a Roma e poi telefonò che l’aereo che da Roma partiva, aveva un ritardo prima di un’ora, poi di due, ma ormai era pronta, a Oslo sarebbe arrivata anche a piedi.

E loro la stavano aspettando, le avevano inviato le foto di tutto ciò che avevano preparato per pranzo.

Telefonò appena atterrata a Oslo, tremava come una foglia, l’emozione le stava trafiggendo il cuore, era come andare verso l’ignoto.

Col figlio di quasi due anni legato in spalla come si usa nel paese dove era nata e due valigie una più piccola con i regali e l’altra con tutte le cose sue e del bambino, si diresse verso l’uscita con passo svelto.

C’era tantissima gente ma da lontano si riconobbero, posò le valigie per riprendere fiato e cominciò a salutare. Dopo undici anni stava per riabbracciare suo figlio, era lì, era finalmente arrivata, arrivata undici anni dopo.

Il figlio con la “mom” era lì ad aspettarla al di là delle transenne dell’uscita.

Aveva un cartello in mano, c’era scritto MAMMA.

Non trovo più e non so neanche se ci sono, le parole per continuare a raccontare e forse non c’è neanche bisogno.

Grato a Dio per avermi fatto un po’ vivere da vicino questa storia vera che porterò sempre con me.

Vedete, troppo spesso si ha l’abitudine di parlare di poveri, di chi ha bisogno di una mano, di un aiuto.

Troppo spesso si ha l’abitudine di parlare di loro, troppo poco si  ha l’abitudine di parlare con loro.