Tratto dal libro di Marino Giannuzzo “I Ragona”. 

Rubriche/PensieriParole/ di Marino Giannuzzo 

Ringraziamo l’autore per aver consentito alla pubblicazione del suo romanzo che troverete su queste pagine ogni domenica con un nuovo episodio. 

Si riparte

La mattina seguente, dopo il disbrigo di qualche pratica burocratica presso il comando della stazione del carabinieri della città, Francesco si era dato da fare per rimettere in movimento almeno una delle due ditte di cui era amministratore unico. Salvo qualche piccola difficoltà vi era riuscito egregiamente. I suoceri lo avevano accolto con gioia e si erano messi subito a sua disposizione dal punto di vista economico. La banca dove lavorava Giulia non aveva posto particolari difficoltà nell’erogare un mutuo corposo, avendo garantito il credito Giulia e i suoi genitori. Tony, contattato telefonicamente, si era dichiarato disponibile a rientrare a Lecce al momento opportuno. Aveva soltanto bisogno di tempo per licenziarsi legalmente e correttamente dalla ditta presso cui lavorava a Chivasso, pur avendo qualche remora in quanto Gisella sarebbe rimasta sul luogo da sola, ma si sarebbe trovata una via d’uscita per questo problema. Era ancora pendente l’istanza di fallimento che aveva avanzato la Rakai, ma anche questo problema fu superato nel modo migliore in quanto solo dopo una settimana del suo ritorno alla libertà il curatore lo aveva invitato presso il suo studio. Francesco vi si era recato lo stesso pomeriggio e, avendo ricevuto la notizia che la Rakai non era a conoscenza che egli era tornato in libertà e si sarebbe accontentata del 50% della somma dovuta oltre le spese, quantificate nella somma di euro settecento, aveva dato immediatamente il suo consenso e provveduto subito al pagamento per mezzo del curatore.

La Rakai aveva rilasciato quietanza liberatoria e ritirata l’istanza di fallimento. Purtroppo l’attrezzatura necessaria per i lavori in buona parte doveva essere rinnovata, ma essendo Francesco conosciuto per un pagatore puntuale non aveva avuto grandi difficoltà ad ottenere credito, e l’attrezzatura, anche se non al 100%, l’ebbe a disposizione. Alcuni operai che in precedenza erano stati alle sue dipendenze furono ben lieti di ritornare a lavorare con lui. La motrice aveva iniziato lentamente, ma decisamente, a scivolare sul binario che per due anni era rimasto binario morto. Giorno dopo giorno riprendeva vita e le prospettive per il futuro promettevano bene. Ciò che rammaricava Francesco ulteriormente era il non avere capito il motivo per cui gli erano stati tolti due anni di libertà, due anni della sua vita, due anni di entrate economiche, anzi di danno non più colmabile né risarcibile, con sofferenze non solo per lui, ma anche per Giulia, per sua madre, per i suoi fratelli, per i suoceri e pure per le famiglie di alcuni lavoratori che erano stati alle sue dipendenze, che per alcuni mesi non erano riusciti a trovare un’altra impresa che li assumesse.

Era un tarlo che si era insinuato nel suo cervello e che nei momenti che dovevano essere di riposo lo tormentavano. Ne parlò con l’avvocato Bonì che lo aveva seguito per quei due anni. Gli chiese come fare per capirci qualcosa. In un primo momento l’avvocato gli suggerì di non pensarci più, di dimenticare tutto, ma era facile per lui dire ”dimenticare tutto”, ma se era stato ragionevole Francesco per non farsi prendere dalla disperazione e accettare lo stato di detenzione con rassegnazione, non lo era adesso e insistette. Giunsero alla determinazione di chiedere copia di tutta la documentazione inclusa nel fascicolo che lo riguardava esistente presso la Procura della Repubblica di Lecce, che ebbe dei costi, ma non esorbitanti, come si temeva. Di fatto i fascicoli di natura penale risultarono due, distinti tra loro per numero di procedura. Il primo riguardava l’omicidio di Piero Giannetti intestato contro IGNOTI, e nel quale in un primo momento risultò il verbale che Francesco aveva reso il giorno quando era stato rinvenuto il cadavere davanti alla sua abitazione e altri documenti che sembravano stilati con faciloneria nei confronti di alcuni pregiudicati della città, che erano risultati tutti con alibi di ferro. Nel secondo, intestato a RAGONA FRANCESCO+4, la documentazione apparve subito copiosa. Oltre al verbale reso da Francesco il giorno quando era stato prelevato dai carabinieri dalla sua abitazione erano presenti richieste e relative risposte a vari istituti bancari con estratti conto personali suoi e delle due sue imprese, nonché della moglie e di suo fratello Tony, oltre alla documentazione riguardante altri.

Ma di questa non fu chiesta né fu rilasciata copia. Documenti chiesti sempre dal capitano Carminelli, comandante della compagnia di Lecce, che Francesco non aveva mai incontrato né conosceva né probabilmente era stato conosciuto da lui. Non compariva mai il nome del maresciallo Caini, che gli aveva fatto la larvata e strana proposta di fare la spia confidente a conclusione dell’interrogatorio per i servizi al comune di Lecce. Ciò che invece Francesco trovò strano di quel fascicolo fu che tra le varie carte era presente la manifestazione di un parere non richiesto da alcuno, ma indirizzato alla Procura della Repubblica, sull’omicidio del fotografo a firma del maresciallo Caini e con la controfirma del capitano Carminelli. In quel documento si avanzavano dei dubbi sulla “esecuzione dell’omicidio del Giannetti nei confronti di Ragona Francesco, come chiaramente si poteva desumere dal fatto che il cadavere era stato rinvenuto davanti alla porta della di lui abitazione e come suggeriva l’assegno emesso dal Ragona a favore del Giannetti, probabilmente come prestito con interessi e plausibilmente denaro mai restituito”.

Tuttavia nulla risultava essere emerso a suo carico per quell’omicidio, come d’altronde era logico, a suo modo di vedere. Ma ricordò con precisione la scena in caserma tra lui e quel maresciallo ed anche il dubbio che aveva espresso all’avvocato Bonì se non ci fosse qualcuno intento a buttare benzina sul fuoco dei suoi guai. In quel momento fu certo che era stato Caini a rovinarlo e doveva dirsi anche fortunato se il PM si era astenuto dal dare corso alle allusioni di …quel cornuto, che cornuto era davvero perché in città tutti sapevano delle scorribande che la moglie si permetteva quando lui era lontano da casa. Ma questo era un problema suo, del maresciallo Caini. Lui, Francesco, si proponeva di fargliela pagare e mille idee di vendetta cominciarono ad attraversare la sua mente. Comunque per il momento doveva pensare ad altro. Per la vendetta c’era tempo, anche perché si dice che la vendetta è un piatto che va servito freddo. Intanto per lui, disse Bonì, era importante che nel procedimento penale, quello sulla corruzione e concussione, che lo riguardava personalmente, il Giudice per le indagini preliminari lo avesse scagionato totalmente per non avere commesso il fatto, poiché dalle indagini nessun elemento era emerso a suo carico. E per l’altro, quello intestato contro IGNOTI, altro Giudice aveva emesso un provvedimento da cui il Ragona risultava estraneo ai fatti e quindi non perseguibile.

Nuovi appalti

Non era stato facile entrare nuovamente nel circuito dei lavori sia pubblici che privati. Tuttavia la ditta “Carpentiere” di cui Francesco era amministratore aveva vinto, rinunciando quasi ad ogni possibile guadagno, l’appalto per la costruzione di un edificio scolastico per conto della Provincia di Lecce a Sogliano Cavour. Disponeva di nove operai, scelti uno per uno, un caposquadra meritevole di piena fiducia, un impiegato nella persona del fratello Tony, rientrato da Chivasso, in attesa che anche Gisella, grazie ad un provvedimento governativo per la mobilità nazionale nel settore docente per le scuole primarie, lo raggiungesse a Lecce o nella provincia. Il lavoro c’era e i tempi erano stretti, molto stretti, per la consegna. Quindi ebbe necessità di reperire altra mano d’opera e dovette affidarsi ad Antonio, il capomastro, il quale nel giro di una settimana riuscì ad ingaggiare altri sette operai specializzati in varie mansioni. Francesco gli aveva dato carta bianca, come si suol dire, e il capomastro non lo deluse. I lavori procedettero alacremente. Gli operai non si lamentarono mai se era necessario continuare a lavorare per qualche mezz’ora ulteriore per completare un’opera quasi terminata. Francesco non si faceva pregare se doveva permettere al fratello di aggiungere una piccola somma fuori conteggio nella busta paga degli operai quando i lavori lo lasciavano soddisfatto.

Ad avanzamento dei lavori, dopo un breve sopralluogo di un ingegnere incaricato, chiese ed ebbe dopo pochi giorni un mandato per la riscossione di un terzo della somma prevista dall’appalto. Pagò il materiale di cui aveva avuto bisogno fino a quel giorno, pagò una parte del mutuo alla banca e la rimanente somma sarebbe servita per fare fronte alla mano d’opera dei dipendenti. Tony ebbe il suo bell’assegno a copertura del lavoro espletato fino a quel giorno, due ore dopo avere ricevuto da Gisella la notizia che col nuovo anno scolastico avrebbe insegnato a Lecce o nella provincia. Aveva egli stesso pregato Francesco di soprassedere momentaneamente al pagamento delle sue spettanze, in attesa che si riscuotesse almeno una prima parte del denaro previsto dall’appalto. Intanto aveva vissuto con il denaro che Gisella depositava sul proprio conto in banca e di cui Tony era in possesso di una seconda tessera bancomat. Anche Francesco aveva vissuto ricorrendo al conto corrente di Giulia e avrebbe dovuto continuare ancora per un bel po’, almeno fino a quando, diceva la moglie, la nave non avesse preso il largo e si sarebbe potuto quindi navigare tranquilli con il vento in poppa. Trascorsero i mesi e al diciottesimo mese dall’inizio i lavori furono completati e consegnati.

La velocità nella esecuzione aveva fatto sorgere qualche sospetto ma il sopralluogo di una commissione e la relazione relativa avevano encomiato la ditta appaltatrice. La commissione aveva fatto particolare riferimento alla circostanza che non erano state mai richieste somme fuori capitolato per qualche variante del progetto originale. Insieme con le somme riscosse era stato questo encomio a riempirlo maggiormente di soddisfazione e a lasciarlo ben sperare per il futuro. Non aveva guadagnato molto da quest’appalto, in termini economici attuali, ma sapeva bene che le conseguenze non potevano che essere positive. Il mutuo continuava a scemare. Gli operai erano stati puntualmente pagati. I contributi regolarmente versati. Un mese prima che completasse i lavori dell’appalto della Provincia aveva raggiunto due accordi con dei privati per la costruzione di due edifici, ai quali bisognava dare subito inizio. In una settimana mise in piedi i due cantieri. Il materiale pretese che gli fosse consegnato in modo puntuale. Gli operai, salvo qualche eccezione, lavoravano di buona lena e la maggioranza di essi riusciva a fare adeguare al ritmo di lavoro anche quella qualche sparuta eccezione. Francesco Ragona era tornato sulla bocca di tutti. Tutti sapevano, non da lui, che aveva patito la detenzione da innocente, che era ripartito da zero e che ora era probabilmente l’impresario migliore della città.

La concorrenza non mancava, ma la qualità dei suoi lavori non aveva paragoni. Fu così che vinse due altre gare d’appalto per due grossi complessi edilizi. Ebbe necessità di nuove somme di denaro e non trovò difficoltà alcuna nel reperirle. Ebbe bisogno di un gran numero di operai e di qualche sovrintendente ai lavori: con qualche piccola difficoltà li trovò. Tony si rese conto subito che da solo in ufficio non poteva farcela. Ne parlò col fratello, il quale gli disse di sbrigarsela lui per il personale occorrente, perché egli non aveva tempo da perdere dietro certi problemi. Fu così che Tony dopo dieci minuti telefonò a Nico, che aveva ceduto alle preghiere della madre di non proseguire la carriera in marina, e che sarebbe rientrato in famiglia tra una quindicina di giorni. Gli propose il lavoro di contabile nell’impresa. Nico ebbe un momento di titubanza. -Ma io non sono capace, non l’ho mai fatto.- disse. -Io neppure ero capace, pur essendo ragioniere come te… -Boh, che devo dirti? Fai tu… -Faccio io? -Sì. -Allora sbrigati e torna il più presto possibile. Fu così che dopo due settimane esatte Tony dovette essere al fianco del fratello minore per indicargli i vari passaggi per la contabilità. L’uso del computer non era un problema, ma col tempo, diceva Tony, tutti quelli che ora si potevano chiamare problemi si sarebbero risolti.

Titti aveva ormai il suo bel diploma per l’insegnamento alla scuola primaria e Tony la invitò a lavorare con loro. Avrebbe svolto le mansioni di segretaria, anche se non si sapeva di chi, avrebbe provveduto al telefono e a quant’altro sarebbe stato necessario nell’ufficio, dove i padroni sarebbero stati i Ragona, dal primo all’ultimo, e soltanto i Ragona, disse con una certa enfasi. Francesco aveva preso l’abitudine di farsi vedere una volta al giorno, talvolta neppure quella per il da fare che c’era. Ogni volta che metteva piede in quell’ufficio si fermava un attimo ad osservare la sorella e i due fratelli e le sue labbra avevano un movimento di accenno ad un sorriso. Era felicissimo anche lui che fossero tutti insieme. Qualche volta restava per qualche attimo sovrappensiero e diceva a se stesso che forse sarebbe stato bello se in quel momento fosse comparso uno sconosciuto alla porta d’ingresso, li avesse visti così riuniti e fosse andato via senza dire una parola, felice che tutti avessero capito che egli era il loro padre. Ma bisognava avere i piedi per terra e le fantasie bisognava che andassero via col vento.

Novità

-La domenica è per la famiglia, e soltanto per la famiglia. C’è tutta la settimana per il lavoro, per gli annessi e per i connessi!- aveva stabilito Giulia una domenica mattina tirando a sé Francesco per la giacca del pigiama mentre egli tentava di mettere i piedi giù dal letto. E Francesco aveva dovuto adeguarsi, e non gli era dispiaciuto, in fin dei conti. Sua moglie non aveva tutti i torti, anzi aveva pienamente ragione. Fu così che quella domenica mattina, svegliatisi entrambi, verso la metà di aprile, come al solito si stringevano sbaciucchiandosi. -Sai una cosa?!- -Cosa? -Una cosa! -Se non mi dici cosa io non so che cosa! -Sono dieci giorni che mi ritardano le cose. -Quali cose? -E quanto ci vuole per capire? Le cose! Le… mestruazioni. -Ma non mi dire che… -Io non dico niente. Dico quello che ho detto. -Pensi che…? -E perché no?

Francesco la strinse più forte, quasi a farle male. Non poteva crederci. Le prese il viso tra le mani e le sue labbra cominciarono dalla bocca a baciarla, sulle guance sul collo, sulle orecchie, sul petto, su tutto il corpo. Con brevi movimenti la liberò della camicia da notte e degli slip. Non seppe come, anche lui si trovò nudo. Fu su di lei continuando a baciarla su tutto il corpo, dalla testa ai piedi, senza pronunciare una sola parola. Furono un solo corpo e una sola anima. -Grazie, Giulia. Amore mio. Ti voglio bene. -Anch’io. Quando si furono calmati si riavvicinarono e si tennero abbracciati. -Pensi che questa sia la volta buona?- sussurrò Francesco. -Non so. Potrebbe darsi.- -Come possiamo saperlo?- -Con un preparato già in confezione della farmacia.- -Allora è meglio che mi alzo. Mi sistemo e arrivo in farmacia. Ci sarà qualcuna di turno.- Mentre parlava Francesco si era già infilati pantaloni, calze e scarpe. Si diresse nel bagno, si lavò in fretta, indossò la prima maglietta che trovò per la stanza e si avviò per scendere in garage. -Tu resta a letto. Non hai necessità di alzarti. Torno presto.- In effetti tornò dopo circa un quarto d’ora con un involtino della farmacia.

-Sono stato fortunato. Una di turno non era lontana.- Lo diede alla moglie mentre egli si tolse la maglietta, che aveva indossato dalla parte rovesciata, cosa che gli aveva fatto notare il farmacista suo conoscente, mentre gli augurava figli maschi e sani. -Grazie! Speriamo. La maglietta… non fa niente, tanto non mi ha visto nessuno… -Le ho fatto glia auguri e dice che io sono nessuno… -Chiedo scusa. Intendevo dire…oltre lei. S’erano fatta una risata entrambi mentre si salutavano con un cenno di mano. -Esito positivo!- aveva esclamato Giulia appena ebbe guardato il risultato di quell’esame casereccio. L’entusiasmo li invase entrambi. Nuovamente si abbracciarono e ridevano e piangevano contemporaneamente. Dopo qualche minuto Giulia, ripresasi aggiunse: -domani però prenderò un appuntamento per un’analisi precisa, non vorrei che ci stiamo illudendo. -Certamente. Anzi più tardi telefoniamo al dottore Gagliardi e ci facciamo dire come muoverci… Gagliardi fu cortese al telefono e fu ben lieto di potere essere utile, anche se era domenica. Conosceva in parte i problemi che aveva avuto la coppia per la mancanza di un bambino e per gli altri motivi, che in città ormai erano conosciuti da molti. L’esito fu positivo e Giulia cominciò a trasformare la sua forma mentis e col tempo anche la sua forma fisica, circostanza che non aveva mai supposto che le avrebbe fatto tanto piacere.

Avrebbe fatto qualunque sacrificio e avrebbe sopportato qualunque limitazione pur di portare a termine e bene quella gravidanza. Finalmente il suo desiderio stava per essere appagato e lei stava per realizzarsi come donna e come mamma, anche se la parola mamma le veniva difficile da supporla nei suoi confronti mentre le era più familiare pronunciarla diretta a sua madre. Tutti i Ragona erano stati felicissimi per la notizia ed entusiasti erano stati i genitori di Giulia, particolarmente la madre di lei. Anche per lei come per Maria, la madre di Francesco, sarebbe cambiato qualcosa: sarebbe stata nonna, avrebbe accudito con più cura la figlia in attesa del parto e poi il nipotino dopo la nascita, che al quarto mese già si sapeva che sarebbe stato un maschietto. Furono dei mesi febbrili per tutti. Francesco correva da una parte all’altra della città preoccupandosi che i lavori proseguissero con ritmo normale, senza interruzioni e senza ritardi, tanto che i dipendenti, tutti, talvolta scherzosamente lo prendevano in giro per quel darsi da fare ora che era in attesa di un erede. Egli lasciava fare e dire. In fin dei conti gli faceva piacere che sapessero che stava per diventare papà. L’ufficio era sotto la totale responsabilità e direzione di Tony con Nico e con Titti. Il lavoro non mancava e anche il denaro era giunto in quantità, come per compensarlo del tempo perduto e del rancore covato in passato.

Di suo padre, malgrado varie ricerche, non si era saputo cosa fosse successo. In certi momenti in cuor suo lo odiava perché, pensava, aveva abbandonato moglie e figli in balìa delle onde, ma subito dopo un sentimento di desiderio, di affetto, e anche di compassione, si impossessava di lui e lo attanagliava per giorni interi, non conoscendo cosa potesse essergli successo, se fosse ancora vivo o se fosse morto, sconosciuto e dimenticato da tutti in qualche sperduto angolo del mondo. Certamente gli avrebbe fatto piacere sentirsi chiamare nonno e sapere che la discendenza dei Ragona sarebbe continuata…

Telegiornale

Ai telegiornali dell’ora di pranzo di quella prima domenica di ottobre, sui canali nazionali e privati, non si finiva di parlare del caso clamoroso che aveva interessato la città di Lecce e provincia. All’alba vi erano stati degli arresti. Undici per la precisione, che investivano anche l’arma dei carabinieri e della finanza. Ancora non si facevano nomi, ma la notizia era destinata a fare scalpore. Ma quando le voci cominciarono ad espandersi per la città e una emittente privata fece i nomi e presentò le foto di tutti gli arrestati la meraviglia non si poté contenere. Tra le persone arrestate spiccavano le figure del maresciallo Caini e di un suo subalterno di cognome Consoli, tra i carabinieri della compagnia della stazione di Lecce, e tre elementi della guardia di finanza della tenenza di Lecce, e precisamente un maresciallo di cognome Speranzi e due suoi subalterni, uno di cognome Geri e l’altro di cognome Celato. Gli altri sei privati. Tutti con l’accusa di associazione a delinquere, corruzione, concussione, falso ideologico e falso in atti pubblici. Giulia con gli occhi bucava lo schermo del televisore. Si volse verso Francesco per scrutarne i movimenti del volto. Egli era rimasto impassibile. Anch’egli guardava fisso il televisore, non si era alterato alla

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notizia, che aveva dell’inusuale, ma un sorriso a fior di labbra era comparso sul suo viso. -A che pensi?- fece Giulia. -A quanta disonestà e corruzione esiste sulla faccia della terra-. E continuò a mangiare, constatato che il giornalista era passato ad altre notizie. Il telegiornale della sera completò nei minimi particolari la notizia. Il tutto era congegnato in modo piuttosto semplice. Alla guida dei due drappelli malavitosi erano stati i due marescialli: Caini per il gruppo carabinieri, di cui facevano parte il brigadiere Consoli della stessa stazione e tre piccoli imprenditori, uno di Galatone e due di Monteroni, mentre per il gruppo della Finanza vi era Speranzi con due subalterni e tre fratelli, piccoli commercianti di Corigliano d’Otranto, dei quali uno già in carcere per altri motivi. A settimane alterne i due marescialli impostavano dei posti di blocco, indipendenti tra loro nelle operazioni ma con contatti ben stretti tra il Caini e lo Speranzi, per regolare il traffico o per motivi di servizio pubblico. A capo dei blocchi sempre uno dei due marescialli: Caini con alcuni carabinieri, con l’immancabile brigadiere Consoli, e Speranzi con alcuni finanzieri con gli immancabili due suoi accoliti Geri e Celato. La cadenza puntuale dei posti di blocco destava meraviglia in molti cittadini che per motivi personali

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ad un determinato orario del pomeriggio o del mattino, quasi sempre uguale, di giorni stabiliti della settimana, attraversavano il tratto di strada che da Gallipoli porta a Lecce, un chilometro prima dell’ingresso in città, dove esisteva, ma non più, uno spiazzo, quasi una piccola area di sosta. Il servizio in genere durava circa un’ora, sia che fosse svolto di mattina, sia che fosse svolto di pomeriggio, poco prima del tramonto. Si svolgeva regolarmente controllando i documenti delle auto e di chi le guidava, elevando contravvenzioni, se necessario, ritirando libretti di circolazione se non in regola con le norme. Nulla che potesse sollevare il benché minimo sospetto. Anzi l’ordine pubblico veniva garantito ed il servizio era certamente meritevole di apprezzamento. Il che si svolgeva con mitra spianati da parte dei due piccoli plotoni, come li chiamavano ormai i leccesi, i quali ormai conoscevano a memoria tali abitudini dei carabinieri e della finanza, tanto che molti, pur di non essere importunati, evitavano in quei giorni di rientrare a casa in quelle ore, ritardando o anticipando il rientro. Il giornalista leggeva le motivazioni dell’arresto e ciò che sembrava meritevole di encomio risultò invece degno di ignominia e di galera. In quel di Lecce, ma anche altrove, alcuni individui avevano appreso come fare miracoli, almeno uno, come quello che aveva fatto Gesù alle nozze di Cana.

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Riuscivano, con poco dispendio di energie economiche, a trasformare l’acqua, meglio se fosse quella piovana, in vino, di buona qualità, di odore, di colore e di sapore gradevoli. Il procedimento era piuttosto semplice. In una vasca, generalmente sotterranea e piuttosto capiente, veniva immessa dell’acqua, vi si aggiungeva una certa quantità di mosto e alcuni quintali di zucchero in proporzione della quantità dell’acqua e della gradazione voluta del vino ed in pochissimi giorni il miracolo avveniva. Si aveva del buon vino e di buona gradazione. Naturalmente il giornalista aggiungeva di non potere indicare né le proporzioni dei singoli ingredienti, né tutti gli ingredienti, per non arrecare danno ai telespettatori, sia come interpretazione di suggerimento per commettere un reato, sia dal punto di vista salute, in quanto l’abbondanza di vino a buon mercato avrebbe potuto favorire l’ebbrezza frequente, completava con un sorriso. La produzione, a detta del giornalista, era andata a gonfie vele per oltre un anno, con cadenza settimanale, e il vino novello veniva spedito a buon mercato anche in Francia, in Germania e persino in Canada in grossi quantitativi. Giunto sul luogo veniva imbottigliato, etichettato e venduto sotto vari nomi già pubblicizzati in Italia e all’estero da altri produttori di vini pregiati.

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Ma come si era giunti ad una produzione così corposa di vino? Notizie e retro scene vennero sbandierate ai quattro venti l’indomani su tutti i giornali, radiogiornali e telegiornali nazionali e privati. Fin dall’inizio il piano si era presentato piuttosto semplice da attuare, però c’erano dei rischi ed era necessario evitarli, prima di iniziare qualsiasi impresa. L’occasione si era presentata durante l’interrogatorio di un tale Giuseppe Masti, pregiudicato per piccoli reati, davanti al maresciallo Caini. Durante la stesura del verbale dell’interrogatorio alla domanda scherzosa che il maresciallo gli aveva rivolto: -Signor Masti, come mai non si è ancora reso conto che con questi mezzucci non diventerà mai, non voglio dire ricco, ma nemmeno discretamente benestante? -Io ce l’avrei un modo per diventare ricco, ma le circostanze non me lo permettono. E volendo potrebbe diventare ricco pure lei, con rispetto parlando- aveva risposto in modo faceto il Masti. -Perché non me lo spiega? -Non fa parte di questo interrogatorio, ma se vuole possiamo andare a prendere un caffè al bar, se lei può sospendere momentaneamente… -Possiamo prenderci una piccola pausa. Lei mi incuriosisce. Andiamo a prendere questo caffè.- Così dicendo si levò in piedi e invitò il Masti a precederlo.

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Uscirono in strada e si avviarono al bar distante circa duecento metri dalla caserma. Masti si era pentito della frase che aveva pronunciato, ma non sapeva come camuffarla. Però si rese conto che il maresciallo mostrava un vero interesse per quella frase buttata lì, quasi in modo incosciente. Non capiva se era interesse da maresciallo dei carabinieri o interesse da uomo comune senza divisa e se era pura curiosità oppure interesse a fini personali. Presero il caffè. Masti volle pagarlo lui malgrado l’insistenza del maresciallo, che facilmente si lasciò convincere in quanto avrebbe dato al cassiere l’impressione di volere rendere ossequio al Masti. Salutarono e si allontanarono dall’esercizio. Il Masti sperava in cuor suo che il discorso per cui era stato sospeso l’interrogatorio fosse stato dimenticato. Tuttavia non sapeva se poteva dire o se gli conveniva tacere. Se il maresciallo voleva ascoltare da maresciallo avrebbe taciuto. -Allora? -Maresciallo, le chiedo scusa se le ho fatto credere cose che non esistono né in cielo né in terra, ma, in ogni caso, se lei vuole ascoltare da maresciallo io non ho nulla da dire. -Lascia stare il maresciallo. Stiamo parlando da uomo a uomo. Le do la mia parola d’onore che quello che mi dice qui resterà qui, ma se mi ha fatto uscire dall’ufficio per ascoltare una barzelletta gliela farò

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pagare. Questo pure fa parte della mia parola d’onore- aggiunse sorridendo. Masti si sentì meno preoccupato, anche se non proprio tranquillissimo. -Non devo raccontarle una barzelletta. Conosco persone che hanno bisogno che si chiuda un occhio riguardo ad un certo lavoro. Non si tratta di danni né a persone né a cose, né di omicidi né di ruberie,- lo tranquillizzò, -diciamo che si tratta di chiudere un occhio su cose quasi normali. Lei farebbe normalmente e tranquillamente il suo lavoro mentre qualcuno lavora anche per lei, oltre che per se stesso. -Spiegati meglio…- -Ora è lei che si deve fidare. Le farò sapere dove e quando se ne può parlare, senza sorprese. Ne va di mezzo la vita personale o di persone care… -Ok. Diciamo che mi fido. Senza sorprese. Altrimenti anche io so come difendermi e come attaccare… -Fuori dubbio. -Ora andiamo a concludere questo interrogatorio. Rientrati in ufficio l’interrogatorio durò altri dieci minuti, dopo di ché si concluse con l’aggiunta di un commento scritto del Caini in cui si diceva che, allo stato, non emergevano indizi da cui potere dedurre che il Masti fosse implicato nei fatti per i quali si svolgevano le indagini. Firmarono tutti e il Masti andò via.

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Dopo una ventina di giorni iniziarono le operazioni. Speranzi aveva accolto con entusiasmo la proposta, prima in forma di facezia e poi in forma seria, di Caini, col quale era legato da vincoli di amicizia che andavano al di là delle rispettive divise, benché nate e sviluppatesi per motivi di servizio in età adulta. Avrebbero dovuto svolgere il proprio servizio normalmente, come meglio ritenevano opportuno, ma con perfetta intesa. Anzi il fatto che tra i due corpi di servizio ci fosse una coordinazione avrebbe senz’altro dovuto produrre dei complimenti da parte delle autorità superiori. Fu così che avevano iniziato a disporre a turni alterni i posti di blocco. Però ciò che nessuno degli altri componenti dei due drappelli riusciva a capire era il fatto che in un determinato momento veniva dato ordine di rientrare o di spostarsi altrove, generalmente subito dopo una telefonata privata che ricevevano coloro che erano a capo del blocco, e cioè Caini o Speranzi. Tali abitudini duravano da oltre un anno. Ma i controlli dei controllori del traffico avevano avuto avvio da una lettera anonima giunta al Comando Generale della Guardia di Finanza e seguita da alcune intercettazioni telefoniche. Si era giunti alla conclusione che i posti di blocco venivano istituiti per salvaguardare i carichi di zucchero in transito che da Gallipoli o da Otranto giungevano a Lecce. Qualcuno dava il segnale telefonicamente e il posto di blocco

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veniva rimosso, dopo avere svolto un servizio encomiabile alla società, ignara dell’effettivo scopo di quel servizio. Da quel momento in poi il carico di zucchero poteva transitare senza alcun problema, e transitava. Per ogni carico di zucchero era prevista una provvigione di mille euro per chi aveva svolto il servizio, per il Caini o per lo Speranzi, provvigione che veniva fatta pervenire in contanti, o sotto altra forma, puntualmente nei modi più svariati. Furono registrate varie telefonate, sia tra i due marescialli che tra i marescialli e gli organizzatori del traffico di zucchero e di vino. Naturalmente venivano usati sempre termini e frasi in codice. I due gruppi, come si precisava, lavoravano per lo più in modo autonomo. Col tempo giunsero all’accordo che il Caini avrebbe coperto il passaggio di un gruppo mentre Speranzi avrebbe coperto il passaggio dell’altro. Con buona pace di tutti il traffico aveva dato e continuava a dare i suoi frutti abbondanti per tutti. Dopo registrazioni ed appostamenti vari, corredati da filmati e messaggi vocali, il Comando centrale della Guardia di Finanza era giunto alla conclusione che le indagini, guidate dalla Procura della Repubblica di Roma, ormai erano mature per potere intervenire. Era stata chiesta l’autorizzazione necessaria e si era intervenuti quella domenica mattina prima dell’alba.

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Si rettificava, in conclusione, che gli arrestati non erano undici, ma diciassette: nove favoriti da Caini e otto da Speranzi. A parte i due marescialli nessuno delle forze dell’ordine era implicato nel traffico di zucchero e di vino. Altri individui erano stati arrestati in Germania, in Francia e in Canada, ma non se ne conosceva il numero esatto né i nomi. Si aveva soltanto notizia che un francese ed un tedesco erano sfuggiti alla cattura ed erano latitanti. Italiani e Canadesi tutti assicurati alla Giustizia a disposizione dei Pubblici Ministeri, almeno due, che avrebbero provveduto agli interrogatori nei giorni seguenti. Giulia si era meravigliata, ma anche gli altri, che conoscevano i momenti tristi vissuti da Francesco, della sua imperturbabilità, salvo un leggero sorriso che affiorava spesso sulle sue labbra. Egli non aveva espresso alcun commento, non aveva dimostrato alcun compiacimento per l’arresto di Caini, né dal suo comportamento poteva desumersi che godeva o che nutrisse un piacere indiretto di vendetta. -Non dici nulla?- gli aveva chiesto Giulia, di nuovo. -Cosa devo dire? Acqua passata. Ognuno ha quel che merita. Posso dire solo che non mi dispiace. E non se ne parlò più perché Francesco aveva puntualizzato che di quell’avvenimento non voleva sentire parlare più e aveva concluso: -chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato!

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