Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico
Mi ritrovai in divisa, in una divisa che un sarto del luogo aveva adattato alla mia misura, per farmela stare a “pennello”.
In realtà non stavo male, solo il basco nero in testa, a dir poco, lo odiavo.
Era tutto ordini e ordine, ed io che già allora ero “spirito libero” feci fatica ad ambientarmi.
Avrei dovuto partire il giorno di Sant’Antonio quando nel mio paese era festa e non mancava mai il cantante di successo sul palco dove la sera prima s’era esibita la banda.
Dovevamo trovarci in un punto che non ricordo con degli amici, tra cui la festeggiata.
Per imprevisti che non ricordo, ci trovammo nel punto stabilito solo in due.
Fu una brutta serata che rese ancora più brutta la partenza.
Partii con un giorno di ritardo ma in quell’ordine e quella precisione, del mio ritardo fortunatamente nessuno se ne accorse.
Sarebbero stati cinque giorni di “consegna” già all’inizio.
Quei mesi lontano da casa, in posti e tra gente che non conoscevo, misero alla prova la mia capacità di adattamento.
Imparai a soffrire la lontananza, ma ero lì, non avevo scelta, dovevo adattarmi. Così feci.
Scrissi una lettera, un giorno si e uno no, spiegavo come in un diario, quello che facevo, com’era cambiato il mio mondo.
Ricevevo anch’io tante lettere ed ogni lettera era una gioia, era un “contatto con casa”.
Una tromba che suonava “il silenzio” chiudeva la serata e apriva i ricordi di casa, di famiglia, di amici e insieme a quei pensieri, la gioia di un giorno in meno alla fine del servizio militare.
Ero in divisa ed era pomeriggio quando salii su quel “treno veloce, mezzo pieno e mezzo vuoto che mi portava a casa”.
In stazione centrale, si incrociavano le note di “Pazza idea” e le note di “Minuetto”.
Quelle note continuarono a inseguirsi per molto tempo.
Non riuscii mai a capire quale delle due canzoni preferivo.
E ancora oggi non lo so.
So che entrambe mi raccontano tanti ricordi e non riesco né riuscirò mai ad amare una più dell’altra.
Sì, tornavo a casa ed ero felice e anche un po’ preoccupato, davanti a me tutte le cose rinviate a “dopo il militare” ed erano davvero tante.
Durante il viaggio non chiusi occhio, avevo un po’ paura di ciò che mi aspettava: forse mille colloqui e altrettanti “le faremo sapere”.
Il Paese, il campanile, la piazza, la strada principale, mi apparvero davanti che era già mattino.
C’era intorno un’aria frizzantina, quell’aria che ogni dolce settembre, ci regala, né caldo né fresco, ed io attraversai a piedi le strade del mio paese diretto a casa.
Quella guerra, quei combattimenti con carri armati, bombe a mano, sparatorie e “sentinelle” per non farci sorprendere dal nemico, per certi versi mi avevavo divertito, per altri maturato.
Ovunque fossi andato, avrei avuto sempre amici da salutare, amici da ritrovare.
A ricordare ora fa parte di quelle cose della cui bellezza “non te ne accorgi quasi mai”.
Scopri la loro grandezza, sempre dopo, quando racconti, quando ricordi e non mentre le vivi.
Se qualcuno mi avesse chiesto se la “guerra” l’avessi vinta o persa, avrei urlato prima che finisse la domanda “vinta”.
Però che strano, nessuno me lo chiese.
A casa era già festa, mi aspettavano, trovai fuori la porta ad aspettarmi, la famiglia del primo piano, poi quella del secondo piano. Poi ero a casa. Finalmente a casa.
Salii le scale con la divisa militare, zaino in spalle e basco in testa che sembrava stessi ancora in caserma.
Volevo farmi vedere e poco ci mancò che mi sentissi un po’ un “eroe senza paura”.
Vi risparmio il racconto di quando entrai in casa, “era lì la festa”, pian piano salirono poi tutti i miei amici, le mie amiche, tutti i vicini e i parenti.
La “naia” era finita ed io ero felice e confuso.
Volevo andare al mare, volevo salutare gli amici, andare in giro, quattro calci al pallone, un gelato, ma non sapevo da dove iniziare.
Non ricordo più quante volte mi chiesero cosa volessi mangiare e non ricordo più neanche se alla domanda risposi.
Ma tanto erano cose che conoscevano tutti.
Ero curioso di sapere quello che nel frattempo era cambiato e quello che era rimasto uguale.
Se quell’amicizia resisteva, se quella passione ancora c’era, se quella simpatia era vera.
Quei quindici mesi avevano cambiato molte cose e di questo me ne accorsi ben presto.
Nel vecchio angolo di un incrocio illuminato solo dalla luna, dove prima, tutti i santi giorni ci trovavamo, aspettai invano.
Non arrivò nessuno.
Ed io che pensavo di fare una sorpresa !!!
Restai solo tutto la sera, seduto su quella panchina di legno sotto un manto di stelle ed una luna piena che sembrava dispiaciuta.
S’era fatto tardi, di sicuro non sarebbe arrivato più nessuno.
Intorno quel profumo di glicine che veniva dal giardino vicino, almeno quello era rimasto.
Avevo aspettato quindici interminabili mesi per tornare a casa, per riprendere la vita di prima, avevo sognato quasi ogni notte i miei amici, le mie amiche, la mia comitiva, avevo contato ogni santo giorno che passava e ogni santo giorno che restava “all’alba”, ed invece avevo trovato “il mio mondo” sottosopra, diverso da come l’avevo lasciato.
Ed io che sognavo di rifare tutti insieme, come prima della partenza, ogni cosa, ci rimasi male e un po mi intristii.
La vecchia comitiva s’era sfilacciata, alcuni studiavano fuori, altri lavoravano fuori altri non avevano più tempo, altri si erano “fidanzati ufficialmente” altri allontanati e basta.
A quest’ora in caserma, staranno dormendo -pensai-.
Poi mi diressi verso casa prendendo a calci un barattolo di latta che non aveva fatto nulla di male.
In quel meraviglioso settembre, racchiusi tutta l ‘estate di quell’anno.
Le prime piogge e il primo fresco, mi sorpresero ancora in spiaggia.
Poi l’estate purtroppo finì, cominciò un malinconico autunno.
Le giornate si fecero più brevi ed io passavo il tempo in attesa, dopo una infinità di colloqui, di una risposta che tardava ad arrivare.
Quandò arrivò, tutte le foglie erano cadute, il sole si vedeva sempre meno, ma io si, riuscii a vederlo anche in quel giorno grigio e strapieno di nuvole.
Sì, era il sole della speranza, il segnale di un qualcosa di nuovo e di atteso.
“IL SIGNORE E’ GRANDE” ripeteva in ogni occasione mia madre.
“Mà, avevi ragione. Avevi, come sempre, ragione.