Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico

Eravamo in piazza SAN BABILA, quando ascoltammo l’accorato appello di una madre, una richiesta d’aiuto, un accento straniero, una voce che tremava.

Ed io che ero già a Milano per passatempo, in giro senza meta con quel mio amico del luogo, fui attraversato da un brivido lungo la schiena.

Partimmo da lì, non passammo neanche da casa, iniziò da lì il nostro viaggio.

Nel frattempo avevamo già preso contatti con chi aveva fatto l’ accorato appello.

Ci fermammo solo per comprare qualcosa da mangiare, da bere, comprare qualche coperta, qualche giocattolo. E da lì partimmo.

Stranamente durante il viaggio, non parlammo molto, avevamo fretta di arrivare e quel giro ai Navigli che dovevamo fare non ci mancava affatto.

Dovevamo trovarci alla stazione di Przemysl in Polonia, lì c’era qualcuno ad aspettarci.

E infatti erano lì, infreddolite, con ancora addosso la paura e una stanchezza che quasi trascinavano le gambe.

Una madre con una figlia di sedici mesi in braccio e due altre  figlie appiccicate a lei di quattro e sei anni.

Erano di una bellezza disarmante, una bellezza che non mostrava i segni   e la trascuratezza di un viaggio che, come poi ci raccontarono, sembrava non finire mai.

E nel loro sguardo si mescolava la gioia per essere riuscite a mettersi in salvo e la tristezza per il papà che avevano lasciato a combattere.

Ci presentammo, la madre ci disse il nome delle tre  figlie, poi disse  il suo: mi chiamo Ucraina e volse lo sguardo altrove per nascondere le sue lacrime.

Per un buon tratto di strada nessuno parlò più, fuori neve, tanta neve, il cielo grigio quasi nero non lasciava presagire nulla di buono.

Chissà i loro pensieri dov’erano e i loro occhi cosa guardavano e le loro orecchie se sentivano ancora l’eco delle bombe e delle sirene.

Per un lungo tratto di strada dormirono coperte sino agli occhi con le coperte calde che avevamo portato.

Poi parlammo, parlammo un po’ ma forse era meglio non parlare, i discorsi ci portavano dritti alla guerra, a chi era rimasto a combattere, ad aiutare, a morire.

Di tanto in tanto delle parole sottovoce, era lei, era lei che pregava.

Dovevamo raggiungere Novara, portarle a Novara dove avevano la nonna e tanti parenti, che erano lì da oltre dieci anni e lì eravamo diretti. 

A Novara arrivammo che era l’imbrunire.

Durante il viaggio non facemmo mancare loro nulla, ci sembrava di fare sempre poco,  troppo poco, ci sembrava di non fare mai abbastanza, ma non c’era nulla di più che potessimo fare.

Non c’era tanto freddo quando a Novara parcheggiammo davanti alla casa che dovevamo raggiungere ed erano tutti fuori ad aspettare.

I pianti e gli abbracci ci mostrarono di nuovo quello che avevamo lasciato al confine, erano pianti ed abbracci di un popolo ferito, un popolo colpito al cuore ma non ancora abbattuto.

Poi toccò a noi salutarli e accettare quel caffè che ci avrebbe tenuto svegli.

Raccomandammo loro di avere tanta speranza, che le cose si sarebbero sistemate, il mio amico forse era sincero, io no, non lo pensavo proprio e ancora oggi non lo penso.

Ero stato dodici mesi a Novara per fare il militare quasi cinquamt’anni prima e avevo passato i cinquant’anni dopo sempre col desiderio, la voglia di ritornarci, quelle strade chissà quante volte le avevo attraversate in divisa ma non ricordavo più niente, o forse la mia mente era altrove, aveva altro da fare, altro a cui pensare.

Tornammo dritti, non era il momento giusto, sarebbe stato per un’altra volta o forse mai più.

Eravamo sulla strada del ritorno quando uno squillo ci segnalò l’arrivo di un messaggio. Diceva cose che già avevamo sentito mille altre volte: “Grazie. Solo grazie”.

E noi: “Ci rivedremo a Kiev un giorno”. E loro: “Si, un giorno”.

Quella fu l’ultima volta per quel giorno, che ci dissero grazie, poi sperai tanto che fossero riuscite a prendere sonno.

Pochi discorsi fatti durante il ritorno a Milano, e diversamente dal solito, poche furono pure le parole.

La macchina scivolava silenziosa su quel nastro d’asfalto nero orlato bianco, di luna e stelle nessuna traccia, qualche luce in lontananza segnalava un borgo o un paesino sperduto tra le montagne.

“S’è fatto buio” – feci io almio amico, e lui: “Si s’è fatto buio”.

Arrivammo che la città si apriva ad un nuovo giorno, un nuovo bellissimo giorno .

In giro un chiacchericcio di bimbi felici che andavano a scuola, che giocavano lungo il tragitto, ridevano, scherzavano.

Chi prendeva il caffè, chi andava a fare la spesa, chi telefonava, chi aveva gli occhi puntati sul giornale, chi guardava una bella vetrina.

A pochi passi da noi stavano sparando, stavano scappando, stavano piangendo, a pochi passi da noi stavano crollando case e palazzi, a pochi passi da noi morti e feriti per strada.

Qui per fortuna niente,  rimasto tutto uguale, tutto come avevamo lasciato.

Non era cambiato nulla. Noi si.

(Continua).