Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico
L’umore era cambiato, non c’era più in noi quell’aria festosa che si spingeva ben oltre la nostra età.
A Milano non avrei saputo che fare, dove andare, non pensare e per questo decisi di tornare al mio paese.
Presi il treno che era sera inoltrata, sarei arrivato il mattino dopo.
Quel viaggio di ritorno, mi servì a pensare, ricordare, scrivere, una preoccupazione si era aggiunta a quelle che già avevo: la paura della guerra, della guerra che partita da lì si sarebbe ben presto estesa, avrebbe toccato anche l’Italia.
Che ne sarebbe stato del mio Paese, della mia casa, della mia famiglia, della gente che ci abitava e che in gran parte conoscevo.
Mio figlio sarebbe dovuto andare in guerra.
Tanti pensieri affollavano la mia mente mentre gente saliva e gente scendeva in ogni stazione, anche se qualche fermata mi sorprese che dormivo.
In quel mattino di primavera che sembrava rubato all’estate, quel mattino che sarebbe stato più giusto affidare a luglio, arrivai al mio paese.
Era un mattino così bello che mi fermai a guardarlo in faccia, mi fermai in una piazza che era tutta mia, mentre le attività intorno alzavano le saracinesche.
Mi fermai seduto sui gradini di una Chiesa, quella che da sempre era la mia preferita e da lì tenevo sott’occhio quello che per tutti era il “centro”.
Il profumo di dolci appena sfornati si levava nell’aria mentre intorno girava già un po’ di gente.
Mi voltai per ammirare ancora la Chiesa alle mie spalle, poi quel palazzo che sembrava “fuori squadro” che le si era poggiato a fianco, guardai quel basolato che luccicava, quelle stradine che salivano e che scendevano e che sembravano tutte contente di avere un percorso strano, mai dritto, mai lineare, quelle stranezze che non ti sai spiegare ma che fanno “bellezza” e che da anni percorrevo.
Guardai quella piazza, quel centro della città di cui conoscevo tutti i dettagli, tutti gli angoli più nascosti, quelle pareti che il tempo aveva reso ancora più belle, e non avrei mai smesso di guardare, di scoprire, ammirare.
Ero stato mille volte all’inseguimento di quei vicoli, per capire dove uscivano, dove portavano, dove alla fine mi sarei trovato, forse in qualche piazzetta vicino a una fontanina che ancora funzionava, vicino a qualche profumo di menta o di basilico.
Il cielo azzurro, neanche una nuvola, nessuna sfumatura di bianco, mi sembrava di avere davanti un quadro dipinto da mani esperte ed io fortunato a guardarlo, seduto sui gradini di quella Chiesa.
Avevo, soltanto per qualche ora, visto in faccia la disperazione, la rassegnazione, ero stato tra gente che aveva perso tutto, che aveva solo quello che aveva potuto mettere in valigia, perso tutto il resto.
Avevo per delle ore respirato il senso della devastazione, della rabbia trattenuta a stento ed ora ero a casa, ero nel mio Paese e tutto andava bene e tutto mi sembrava più bello, anche ogni piccola cosa che prima non avevo neanche notato.
Mi girai a guardare ancora una volta tutt’intorno, quella palma che voleva per forza arrampicarsi sino in cielo, quella donna smorfiosa sdraiata in quella vasca.
Mi girai a guardare ancora una volta la mia città, non mi era mai sembrata così bella.