Quella cartolina del distretto militare, fu un colpo al cuore, travolse tutti i miei piani.

Rubriche/PensieriParole/di Piero D’Errico

Galatina – Avevo ricevuto la “cartolina” per il servizio militare da alcuni giorni e da alcuni giorni non avevo più pace.
Non era per il servizio militare, la lontananza o il tempo perso, era perché dovevo trovarmi in quella caserma del centro nord, proprio il 13 giugno, in un orario che
non ricordo.
A vent’anni di allora, si aspettavano con gioia le feste del paese, le luci, i giochi,
la musica.
Insomma la festa di Sant’Antonio era un’occasione importante, l’aspettavamo, era un’occasione divertente e poi quella volta speravo di incontrare una persona che, non so io per lei, ma per me era importante.
Era anche l’occasione per vestirmi bene, pettinarmi bene.
Quella cartolina del distretto militare, fu un colpo al cuore, travolse tutti i miei piani, tutte le mie aspettative, le mie speranze.
Il mio stato d’animo era sottosopra anche perché non sapevo quando sarei tornato, si diceva dopo tre mesi dopo aver finito il CAR che era l’addestramento.
Avevo però maturato, pur nella mia timidezza, il coraggio di partire in ritardo e comunque dopo la festa di Sant’Antonio.
La serata era quella giusta e io nella mia impeccabile tenuta, alle sette ero già in giro tra bancarelle e canzoni.
Passai un po’ di tempo ad osservare piatti che non si rompevano, piatti che sbattuti su un tavolo più volte non si rompevano, a sentire aggiungere sempre nuovi pezzi a quella che poi diventava una collezione in offerta.
L’offerta partiva dai piatti “fondi”, passava ai piatti “spasi” e via sino ai piattini, il tutto a un buon prezzo.
Mi fermai qualche minuto ad assistere alla “riffa”, l’estrazione di numeri collegati a tantissime cose, bici, giradischi, ventilatori ecc.
Ogni tanto usciva un numero vincente, probabilmente di qualcuno della “cricca” o un familiare, collegato ad un premio molto importante e che serviva a scatenare nei presenti curiosità, desiderio e tentazione. Ma il massimo che potevano vincere era sempre la solita bambola.
Lanciai le palline da ping-pong nei vasetti pieni d’acqua con il pesciolino rosso che nuotava, meno male che non vinsi se no mi sarebbe toccato andare in giro con la busta ed il pesciolino.
Lanciai gli anelli per cercare di avvitarli al collo di qualche bottiglia di vermut, ma quella sera la fortuna mi aveva girato le spalle.
Facevo queste cose, ma il mio sguardo era sempre attento e vigile, non volevo che mi sfuggisse la persona che speravo di incontrare, magari vederla passare con i genitori, magari salutarla o magari farmi vedere in quella mia tenuta studiata per l’occasione.
Quella sera la fortuna mi girò le spalle in ogni cosa, sarei partito l’indomani sera alle 20, 30 sarei partito in “borghese” e sarei tornato in divisa, col basco che odiai per tutto il tempo, in testa.
Tornai a casa che era passata mezzanotte, non avevo incontrato nessuno, ero deluso e amareggiato e neanche avevo più tempo.
Quei “mustazzoli” salirono e scesero tutta la notte, la mattina preparai la valigia con la morte nel cuore e per fortuna non dimenticai nulla.
Presi dalla stazione del mio paese il treno che mi avrebbe portato in città, alla stazione da cui sarei partito per la destinazione che l’Esercito Italiano mi aveva assegnato.
Il viaggio fu di una tristezza unica, un po’ seduto, un po’ al finestrino.
All’arrivo mi avrebbero mandato dal barbiere per un taglio di capelli alla militare, corti con sfumatura molto alta e ciuffetto, e per la verità quel taglio mi donava molto.
Registrato l’arrivo, mi avrebbero consegnato biancheria e divisa, avrei fatto un giro per vedere la mensa e per capire dov’ero finito.
Ero là da un po’ di giorni e durante l’adunata, il sergente ogni giorno, scandiva i nomi di chi era arrivato in ritardo e la punizione.
Per giorni aspettai che pronunciasse il mio nome e aspettai di conoscere la punizione. Il mio nome non lo fece mai ed io mai chiesi perché.
Dopo qualche giorno ero già in giro e molto prima dell’orario di rientro che c’era,
ero già in branda.
Per tre mesi nessun permesso, nessuna licenza, ci addestravano per il giuramento,
per la cerimonia del giuramento, e al solo pensarci ora mi viene la pelle d’oca.
Fu tutto veramente bello, carico di commozione e amore per la patria.
Fu una delle giornate più belle, orgogliosi di poter servire la patria, di essere utili
alla patria.
Erano passati pochi mesi, ma quando tornai il mio rione mi sembrò diverso, mi sentivo come estraneo, come ignorato ma era una sensazione mia, solo mia.
Ero tornato nei vestiti di sempre.
Dovevo stare solo qualche giorno e per la verità speravo di incontrare prima di partire, quell’amica che era stata la causa di quel giorno di ritardo.
La incontrai per caso prima di partire ma non era sola.
Era con un ragazzo per giunta mio amico e per giunta erano in atteggiamenti confidenziali.
Ed io che per quel ritardo avevo rischiato di sporcare la mia brillante carriera militare durata 15 lunghi mesi tra finti allarmi e finta guerra.
Mi congedai che ero caporal maggiore ed ero anche un bravo “carrista”.
Non ricordo se la guerra l’avevo vinta o se invece l’avevo persa, so che era finita, so che tornavo a casa e speravo fosse per sempre.
Il ritorno fu tutto un racconto, cose belle e cose brutte che si alternavano nei discorsi che io per farmi bello ingrandivo ed era quasi il 13 giugno di qualche anno dopo, la festa di Sant’Antonio, quando aprendo un cassetto in uno stanzino di casa disordinato e pieno di cose inutili, trovai legate con un elastico bianco tutte le lettere che avevo spedito dal “fronte” .
Un’infinità, quasi una al giorno quasi un diario. Mia madre le aveva messe lì in quel cassetto per ordine di arrivo insieme a foto con fucile e divisa.
Raccontavo il malessere che la lontananza mi dava, raccontavo la malinconia, la nostalgia per tutto ciò che mi mancava, raccomandavo di salutarmi sempre i miei compagni di scuola e di chiesa, di salutare lei.
Seppi solo dopo che quella sera in giro per la festa c’era stata anche lei e sapendo che l’indomani dovevo partire, anche lei mi aveva cercato.
Non ci incontrammo o forse ci sfiorammo senza vederci, chissà !.
Ma io quella sera la ricordo ancora, si concluse con i fuochi d’artificio:
un botto fortissimo fece vibrare i vetri delle case e il cielo fu tutto una cascata d’argento, infinita, luminosa.
Era finita così quella malinconica serata,
insieme a una storia non ancora cominciata.